Alla fine Mario Monti ce l’ha fatta, pur dovendo cedere a diktat e imposizioni varie da parte di quelle stesse forze politiche che, incapaci di varare misure credibili per i mercati, cercano ora di chiamarsi fuori il più possibile essendo state sino all’ultimo tentate di andare alle elezioni anticipate (e forse anche vivere i prossimi tre mesi in un clima di irresponsabile contesa pre-elettorale che si preannunciava ricca di scambi di accuse incrociate e dichiarazioni ad effetto, ma povera di soluzioni concrete).
L’esecutivo Monti piace ai mercati? Il dubbio è lecito naturalmente e la risposta non è detto sia univoca: se tuttavia si guarda all’andamento degli spread si direbbe di sì, non tanto e non solo perché lo spread tra Btp e Bund resta sia pure di poco sotto i massimi toccati nelle scorse settimane (stasera è stato fissato a 519 punti base, 10 in meno di ieri, a fronte di un rendimento del titolo decennale italiano pari esattamente al 7% dal 7,04% della vigilia), quanto perché nel frattempo qualcosa è cambiato nel quadro di riferimento.
La crisi, infatti, non è più un problema di singoli stati (con la Grecia dietro la lavagna, il Portogallo che cerca di svolgere i compiti assegnati e l’Irlanda che manda promettenti segnali di stabilizzazione, mentre l’Italia resta la possibile “mina vagante” in grado di far saltare per aria tutto il castello dell’euro), ma è “sistemica” e “richiede un impegno da parte di tutti”, come scoprono ora, dopo aver contribuito a renderla tale con la propria incompetenza e intempestività, le autorità europee a partire dal presidente della Commissione Ue, Josè Manuel Barroso.
Così sistemica che di fatto il “rischio contagio” ormai riguarda direttamente Spagna, Francia, Austria e Finlandia, mentre dalla Gran Bretagna la Banca d’Inghilterra lancia un monito: poiché tornano a crescere i rischi di recessione, vi sono preoccupazioni circa la solvibilità di “alcuni stati europei” e permangono tensioni sul settore bancario dell’intero vecchio continente, la BoE si è detta pronta a valutare un’eventuale ripresa del programma di riacquisto di titoli obbligazionari finora fermo a 275 miliardi di sterline.
Una misura che in economichese si chiama “quantitative easing” e sta ad indicare la disponibilità della banca centrale di finanziare l’economia agendo da prestatore di ultima istanza nei confronti del sistema bancario, proprio quel ruolo che la Germania (come ha ribadito ancora oggi il ministro delle Finanze Wolfgang Schaeuble) ritiene non debba essere svolto dalla Bce, in quanto sarebbe una “soluzione sbagliata” poichè creerebbe problemi a lungo termine, mentre il premier irlandese Enda Kenny, che sa per diretta esperienza cosa voglia dire dover gestire una crisi del debito sovrano, dichiara esattamente il contrario, ossia che il piano immaginato dalle autorità europee sotto la spinta della Germania che prevede il levereggiamento del fondo “salva stati” Efsf fino a mille miliardi di euro (contro gli attuali 260 euro residui di disponibilità) è “insufficiente” e non ha la possibilità di rassicurare i mercati.
Così, nel frattempo che le autorità europee si convincano di quale debba essere la soluzione “definitiva” del problema, gli investitori fanno quello che è logico e necessario: alleggeriscono le posizioni non solo sui titoli di stato italiani e spagnoli (anche oggi acquistati dalla Bce), ma anche francesi, belgi o austriaci. Tanto che lo spread tra Oat francesi e Bund tedeschi sale al livello record di 192 punti base (il massimo dal lontano 1992) prima di chiudere a 190 punti base e quello tra Bonos spagnoli e Bund ritorna a 460 punti base, solo 59 punti base meno di quello tra titoli italiani e tedeschi (va ricordato che prima di agosto lo spread sui titoli italiani era inferiore a quello sui titoli spagnoli, mentre successivamente le parti si erano invertite sino ad arrivare a un massimo di 155 punti base a svantaggio dei titoli italiani il 10 novembre scorso).
Merito dunque del governo Monti, ma anche del demerito dei governi spagnoli e francesi (oltre che dei tentennamenti e incongruenze tedesche), se l’Italia non è più sola sotto i riflettori dei mercati; quello che accadrà nei prossimi giorni dipenderà da quanto spazio avrà il nuovo esecutivo italiano nell’affrontare i principali problemi sul tappeto a partire dalla crescita (e qui si è subito avuta una sorpresa con la nomina dell’ex numero uno di Intesa Sanpaolo, dimessosi in giornata, Corrado Passera, al ministero dello Sviluppo e delle Infrastrutture) e fino ad arrivare ai temi del welfare (in questo caso è stata nominata ministro, con delega anche alle Pari Opportunità, Elsa Fornero, ordinario di Economia all’università di Torino e già vice presidente del Consiglio di sorveglianza di Intesa Sanpaolo).
Scontate fin d’ora i dibattiti, televisivi e non, attorno al “colore” di questo o quel “tecnico”, a me pare che l’esecutivo Monti offra una fotografia abbastanza fedele di quanto il Paese è in grado al momento di schierare. Al suo interno vi sono infatti banchieri come Passera, nato professionalmente all’interno del gruppo De Benedetti, poi divenuto amministratore delegato di Poste Italiane prime di tornare in Intesa Sanpaolo, da lui trasformata in “banca di sistema” con interventi, non sempre felicissimi soprattutto per le tasche di azionisti di minoranza e contribuenti, a favore di società come Alitalia piuttosto che Parmalat.
Vi sono uomini di chiara ispirazione cattolica come Lorenzo Ornaghi, Renato Balduzzi e Andrea Riccardi, vi sono simpatizzanti del centro-sinistra da Francesco Profumo a Piero Giarda (che sotto Dini, D’Alema e Amato fu sottosegretario al Tesoro tra il 1995 e il 2001), piuttosto che Fabrizio Barca (economista, direttore generale del Tesoro ma anche ex deputato del Pci ed ex direttore dell’Unità), accanto a neoministri indicati come “vicini” al “terzo polo” composto al momento da Fli e Udc come Giulio Terzi di Sant'Agata o Anna Maria Cancellieri. Non mancano neppure nomi vicini al mondo delle aziende o delle professioni, come l’ex presidente dell’Enel Piero Gnudi o Paola Severino, una dei più noti penalisti italiani che in passato ha assistito clienti del calibro di Romano Prodi, Francesco Gaetano Caltagirone, Cesare Geronzi, piuttosto che aziende come Fininvest, Telecom Italia o Eni. Mentre lo stesso Monti è riuscito a portare con sé in questa nuova avventura il suo ex capo di gabinetto a Bruxelles, Enzo Moavero Milanesi, il “Letta di Monti” come qualcuno l’ha già definito (che ai palazzi della politica romana non è nuovo, avendo ricoperto ruoli di consigliere nei governi Amato e Ciampi tra il 1992 e il 1994).
Mi pare oggettivamente la migliore formazione che l’Italia possa schierare in campo al momento e non vi è da rimanere stupiti dei possibili conflitti d’interesse che ciascun “tecnico” porta con sé: un governo di santi non si è mai visto in terra, l’importante saranno i risultati che il nuovo esecutivo saprà ottenere, visto che i mercati non sembrano intenzionati a fare sconti a nessuno.