Buio pesto per l’economia italiana: nel 2012 l’Istat prevede “una riduzione del prodotto interno lordo (Pil) italiano pari al 2,3%, mentre per il 2013, nonostante l’attenuazione degli impulsi sfavorevoli ed un moderato recupero dell’attività economica nel secondo semestre, la variazione media annua resterebbe leggermente negativa (-0,5%)”. Secondo l’istituto statistico la domanda estera netta “risulterebbe, in entrambi gli anni, la principale fonte di sostegno alla crescita, con un contributo rispettivamente pari a 2,8 e a 0,5 punti percentuali”, mentre il contributo della domanda interna al netto delle scorte “è previsto rimanere negativo sia nel 2012 (-3,6 punti percentuali) sia nel 2013 (-0,9 punti percentuali)”.
Scendendo nel dettaglio, la spesa privata per consumi dovrebbe calare quest’anno del 3,2% e nel 2013 di un ulteriore 0,7%, “a seguito delle persistenti difficoltà sul mercato del lavoro e della debolezza dei redditi nominali”, eufemismo per dire che tra prospettive occupazionali precarie, rincari di tariffe e generi di prima necessità e ulteriore incremento del prelievo fiscale complessivo agli italiani resterà in tasca sempre meno. In parallelo gli investimenti fissi lordi sono attesi in calo del 7,2% nel 2012, mentre nel 2013 la caduta dovrebbe rallentare (-0,9%). La maggiore partecipazione al mercato del lavoro osservata a partire dalla fine del 2011 “è alla base del rilevante incremento del tasso di disoccupazione previsto per quest’anno (10,6%)” spiega l’Istat che poi aggiunge come “nel 2013 il tasso di disoccupazione continuerebbe a salire (11,4%) a causa del contrarsi dell’occupazione”.
Non è tutto: il rallentamento del commercio mondiale e il possibile riacutizzarsi delle tensioni sui mercati finanziari “costituiscono i principali fattori di rischio al ribasso per queste previsioni”, conclude l’Istat, come se ci fosse motivo per essere contenti delle previsioni. E’ purtroppo la conseguenza fin troppo facilmente prevista di una “ricetta” imposta dall’egemone europeo già a Grecia e Spagna (coi risultati che sono sotto gli occhi di tutti) e dalla quale non sembra avere la forza di sottrarsi neppure l’Italia che del resto col suo debito pubblico è il vero “elefante nella cristalleria” di tutta Europa. Se non fosse chiaro, siamo al redde rationem: dopo decenni di spesa allegra in cui alcuni hanno approfittato del credito concesso per arricchirsi alle spalle della nazione (a cui sono stati lasciati i debiti), è il momento in cui i creditori chiedono il rispetto degli impegni assunti.
Ma mentre nel caso delle singole imprese private questo sta avvenendo attraverso una serie di fallimenti e ristrutturazioni del debito (sostanzialmente in base all’esposizione che hanno di volta in volta i creditori ed in particolare le banche: come noto quando si deve a un banchiere poche migliaia di euro si ha un creditore, quando gli si debbono svariati milioni si ha un socio interessato quanto noi a trovare una soluzione), l’opzione “fallimento” per un paese non è una soluzione in alcun modo auspicabile come ben sanno (purtroppo per loro) i cittadini argentini, paese fallito nel 2001 e che ha impiegato un decennio per ritornare a livelli di reddito pro-capite vicini a quelli ante-default (circa 7.500 dollari Usa l’anno).
Certo, la disoccupazione è rientrata dal 25% toccato nel 2002 (livelli attorno ai quali viaggiano nel frattempo la Grecia e la Spagna) al 7,5% di fine 2011, ma l’inflazione sta nuovamente esplodendo (anche se si fa di tutto per non fornire indicazioni precise al riguardo, nonostante i continui richiami del Fmi, la crescita dei prezzi “reale” dovrebbe essere superiore al 20%, mangiandosi quasi del tutto la crescita nominale dei salari, +25% lo scorso anno) e nel frattempo si sono andate introducendo nuove restrizioni alle importazioni e alla tenuta di conti in valuta (persino su Paypal).
Un mondo “ante globalizzazione” sempre meno libero e sempre più a rischio di una nuova implosione, anche perché a 11 anni di distanza dal default l’Argentina non è ancora riuscita a tornare sul mercato internazionale del credito e quindi deve fare affidamento sulle sue sole forze per cercare di uscire definitivamente dalla crisi. Nel frattempo anche in Argentina chi ha approfittato per tempo dei “bei tempi di una volta” ha avuto modo di mettere al sicuro le proprie rendite e patrimoni, così come sembrano averlo fatto in Italia i molti (evasori e non) che hanno goduto dei benefici legati a un debito pubblico in continua crescita in un mondo in cui l’economia sembrava poter a sua volta crescere senza fine. Ora la crescita è ferma da un quindicennio, abbiamo gli occhi dei mercati sui nostri conti e i diktat tedeschi a ogni forma di maggiore integrazione che potrebbe riuscire a farci soffrire meno (ma evidentemente il tema della sofferenza di greci, spagnoli o italiani non è di particolare interesse per un elettore e contribuente tedesco e poco vale ricordare che furono proprio la Germania e la Francia a chiedere agli altri stati membri della Ue, negli anni Novanta, di chiudere un occhio all’andamento dei conti e dare loro una mano).
Ma in Italia ancora ci si accapiglia senza riuscire a proporre soluzioni alternative alla “cura Monti”, salvo magari solleticare gli elettori con ricette sudamericane che avrebbero l’unico pregio di abbreviare le nostre sofferenze, facendo colare a picco il paese in pochi mesi. La via d’uscita dalla crisi esiste e passa per una rivoluzione culturale che abbatta la casta politica, elimini i corrotti e gli incapaci, rimuova gli ostacoli alla concorrenza in tutti i settori, ridia dignità ai lavoratori e ai giovani in particolare, offrendo loro una nuova prospettiva futura che non sia il precariato a vita. A quel punto anche gli investimenti potrebbero tornare a crescere senza fare affidamento unicamente sulle esportazioni. Sempre che in Europa prevalgano i sentimenti e gli interessi che spingono verso una maggiore convergenza e integrazione economica, politica e giuridica e che nessuno provi ad approfittare ancora una volta dello sforzo di molti per costituire nuove rendite di posizione “a sbafo”.
P.S: Forse c'entra solo in parte con una ricetta per rilanciare il paese, ma mi ha colpito la notizia che il miliardario statunitense Henry Kravis, co-fondatore di KKR & Co. (una delle maggiori società di private equity e venture capital al mondo) abbia deciso di fare il bis: se dopo l’attentato terroristico alle Twin Tower di New York dell’11 settembre 2001 aveva concesso finanziamenti a tasso zero a 89 società danneggiate dall’attentato che avevano così potuto riprendere la propria attività, dopo il passaggio dell’uragano Sandy su New York e la costa est degli Stati Uniti ha deciso di investire 35 milioni di dollari attraverso il New York City Fund (partneship pubblico-privata creata nel 1996) per finanziare progetti che dovrebbero creare nuovi posti di lavoro e rivitalizzare i quartieri più poveri della città. Il fondo, che si propone di recuperare i propri investimenti nell’arco di 5 anni dall’erogazione dei fondi, finora ha già aiutato 125 società attive nei settori sanitario, dell’istruzione e di altri servizi favorendo la creazione di quasi 6.700 nuovi posti di lavoro. Non è un milione di posti di lavoro, ma questi esistono e aiutano concretamente la comunità (New York) in cui Henry Kravis è riuscito a emergere e fare fortuna. A quando gesti altrettanto concreti da parte dei nostri sedicendi imprenditori e aspiranti-premier?