Vittima del marito mafioso e salvata da una sconosciuta: la pm Cerreti racconta le donne “libere di scegliere”
Ci sono donne della criminalità organizzata che sono mandanti di omicidi. Altre sono intrappolate nella loro famiglia di mafia e sono vittime di violenza. Scappare per loro significa essere condannate a morte, ma decidono di affidarsi allo Stato per salvarsi e salvare i propri figli.
A Fanpage.it la sostituta procuratrice della Direzione Distrettuale Antimafia di Milano Alessandra Cerreti racconta i suoi incontri con le donne che si ribellano e l'unico caso milanese in cui è stato attivato il protocollo "Liberi di scegliere".
Che ruolo hanno le donne all'interno di un'organizzazione criminale?
Le donne non hanno dei ruoli prefissati all'interno dell'organizzazione di stampo mafioso. Anche perché non tutte le organizzazioni criminali hanno la stessa struttura: se si pensa alla camorra napoletana è possibile trovare capi donne e anche donne omosessuali.
Questo però sarebbe assolutamente impensabile sia per cosa nostra che per la ‘ndrangheta. In quest'ultima di recente le donne sono sempre più utilizzate per fare da tramite tra dentro e fuori il carcere: consegnano e ricevono messaggi dai loro parenti detenuti. Non mancano però le donne che subiscono la violenza con l'aggravante del metodo mafioso all'interno della famiglia.
Cosa possono fare le donne che vogliono scappare da questa realtà?
Quando le donne decidono di uscire dalla famiglia per proteggere sé stesse ed eventuali figli minori hanno due possibilità. La prima, possono collaborare con la giustizia fornendo informazioni che permettano l'avvio delle attività investigative nei confronti della famiglia di appartenenze. Subito per loro scatterebbe il sistema di protezione, come previsto dal nostro ordinamento. La seconda, ci sono donne che non hanno nulla da riferire oppure decidano di non parlare, ma vogliono soltanto andare via e allontanare gli eventuali figli minori dalla realtà mafiosa. In questo caso si attiva un protocollo che si chiama "Liberi di scegliere".
Il protocollo è stato istituito per la prima volta nel 2022 a Reggio Calabria: è un'idea nata dalla collaborazione tra le Direzione distrettuale antimafia di più Procure e la Procura presso il Tribunale dei minori di Reggio Calabria.
Questo protocollo è stato attivato già più di una volta in Calabria, in Lombardia invece?
Le donne vittime all'interno dell'organizzazione mafiosa esistono sia al Sud che al Nord. A Milano il protocollo è stato attivato in un caso. Si tratta di una donna vittima della violenza del marito affiliato a cosa nostra: inquirenti e investigatori hanno riconosciuto l'aggravante del metodo mafioso con cui l'uomo maltrattava la moglie.
Questo caso è finito in Procura per puro caso: un'assistente sociale ha notato la donna piangere sul treno, si è avvicinata a lei e le ha chiesto cosa stava succedendo. Questo gesto di solidarietà tra donne ha permesso che la vittima si confidasse. Poi questa sconosciuta gentile l'ha accompagnata in Procura presso il Tribunale dei minori di Milano.
La donna ha raccontato di aver subito delle violenze da parte del marito che in quel momento si trovava in carcere perché ritenuto un uomo di cosa nostra. A breve però sarebbe uscito e la donna temeva che avrebbe continuato con i maltrattamenti nei suoi confronti. Dopo la sua testimonianza siamo riusciti ad applicare a questa donna e alla figlia minore il protocollo "Liberi di scegliere". Grazie a questo strumento madre e figli vengono portati subito in strutture di sicurezza e vengono seguiti da psicologi e altre figure professionali in grado di garantire loro assistenza.
Durante la sua carriera da magistrato ha sentito la testimonianza di molte donne, offrendo loro protezione. Si ricorda il primo incontro con loro?
Mi ricordo perfettamente del primo incontro con Giuseppina Pesce, la cui famiglia apparteneva a una delle cosce più importanti della Calabria. La incontrai la prima volta in carcere perché era all'epoca detenuta proprio nell'ambito del maxi-processo che ha visto alla sbarra tutta la sua famiglia, nell'ambito del quale lei è stata poi condannata per l'appartenenza all'associazione mafiosa. In quel nostro primo incontro non dimenticherò mai il suo sguardo di odio e di risentimento nei miei confronti perché mi riteneva la responsabile di quello che le stava accadendo.
Dopo alcune ora di interrogatorio però mi ricordo il travaglio interiore di questa donna che desiderava garantire un futuro di libertà per i propri figli ma per farlo doveva condannare a pene severissime i suoi più stretti famigliari. Scelse di collaborare. Alla fine dell'interrogatorio per convincersi che aveva fatto la scelta giusta continuava a ripetersi ‘i figli sono i miei, i figli sono i miei'.
Altra storia è quella di Giusy Multari. Non era accusata di nessun reato, è una testimone di giustizia e una vittima di violenza domestica aggravati dalla modalità mafioso. Quando mi vide per la prima volta durante il nostro primo interrogatorio scoppiò a piangere e mi disse: ‘Sono anni che aspetto che qualcuno mi venga a sentire'. Attraverso le sue dichiarazioni sono stati arrestati e condannati 19 appartenenti alla famiglia Cacciola, che è una delle famiglie mafiose più potenti della Piana di Gioia Tauro.
Che ruolo hanno i figli?
Nella maggior parte delle storie di donne di cui mi sono occupata i figli sono utilizzati dalla famiglia mafiosa come strumento di ricatto nei confronti della donna per farle retrocedere dalla loro decisione di collaborare. È successo anche nei confronti di Maria Concetta Cacciola che ha scelto di salvarsi e scappare dalla sua famiglia di ‘ndrangheta. Aveva un figlio adolescente che non l'avrebbe mai seguita. Le sue due bambine minori, soprattutto una piccola di quattro-cinque anni, è stata utilizzata per indurla a tornare indietro a Rosarno. Cosa che è accaduta perché lei uscì dal programma di protezione. La sentenza della Corte di Assise di Palmi ha statuito che è stata uccisa. Le indagini non hanno ancora consentito di individuare i responsabili.
Questo per la ‘ndrangheta è un messaggio fortissimo: l'acido muriatico le è stato versato in bocca perché lei ha usato la bocca per tradire i suoi parenti.
Lei è una delle magistrate della Dda di Milano. Qui siete soprattutto donne, questo vi aiuta nel vostro lavoro?
In effetti su nove procuratori solo tre sono uomini. La Dda di Milano è diretta da una donna, dalla collega Alessandra Dolci. E prima di lei da un'altra donna, la dottoressa Ilda Boccassini.
Non credo che l'essere donna agevoli particolarmente il nostro lavoro ma sicuramente consente, in determinati ambiti, come può essere quello delle donne testimoni di giustizia o collaboratrici, di instaurare un rapporto di fiducia.