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Un’educatrice per bimbi in comunità: “Faccio questo lavoro per 9 euro all’ora perché a volte c’è il lieto fine”

Monica (nome di fantasia) fa l’educatrice in una comunità per minori allontanati dalla famiglia. Ogni giorno vive sulla sua pelle storie assurde, eppure continua a fare il suo lavoro: “Perché a volte le cose funzionano. E, poi, a muovere tutto è il bene che vuoi ai ragazzi”.
A cura di Matilde Peretto
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Monica (nome di fantasia) fa l’educatrice in una comunità di Milano che ospita minori allontanati dalla loro famiglia. È una piccola realtà, con 10 posti e quasi sempre tutti occupati. Monica ha raccontato a Fanpage.it che lei e i suoi colleghi "accompagnano i bambini nell’affrontare le loro storie cercando di fargli vivere la normalità", tenendo un certo distacco emotivo perché “ci sono delle situazioni talmente pesanti che se ti lasci avvicinare troppo diventa difficile riuscire a viverlo come un lavoro”. La sua comunità alla fine è una casa in cui ragazzini dai 4 ai 18 anni convivono in una sorta di dinamica familiare fatta di tantissimi fratelli, ma diversissimi tra loro, ognuno con la propria storia. Per lo più drammatica, fatta di indigenza, abusi e maltrattamenti. Eppure Monica fa questo lavoro che è durissimo ed emotivamente pesante come un macigno. Perché? Perché alcune volte le cose vanno bene, perché alcune volte qualcuno si salva e riprende a vivere.

La vita in una comunità di minori allontanati dalla famiglia

La comunità educativa in cui lavora Monica è aperta tutto l'anno e i bambini che ci vivono sono seguiti 24 ore su 24. Anche di notte c'è sempre un educatore che rimane con loro. La loro giornata tipo è uguale a quella di un qualsiasi altro bambino: "Li accompagniamo a scuola o vanno da soli, poi tornano e facciamo i compiti. Fanno tutti sport, cosa su cui spingiamo molto. L’idea è quella di trovare attività sportive sul territorio, quindi nel quartiere". Monica non aveva idea che sarebbe finita in una comunità minorile. Sta ancora studiando Scienze dell'educazione, ma dopo il tirocinio si è trovata bene nella struttura ed è rimasta.

"Ho iniziato a legare molto con i bambini e i ragazzi che sono qui, e anche con gli altri educatori", ha spiegato. Il loro compito è quello di accompagnare i bambini nell'affrontare le loro situazioni cercando di far vivere loro la normalità. "Il nostro lavoro è accogliere il loro vissuto, aiutarli ad elaborarlo e cercare di supportarli. Noi chiediamo ai bambini, non aspettiamo che ci parlino loro. Poi con qualcuno insisti di più con altri meno, dipende dal carattere. C’era una ragazzina che è arrivata da noi circa un anno fa che era molto chiusa a livello emotivo, quasi apatica. Non ha mai raccontato niente anche se nella realtà era molto tranquilla, anche affettuosa, però non ha mai voluto parlare dei motivi che l’hanno portata in comunità. Il nostro lavoro è anche riuscire a sbloccare quell’apatia".

La vita di un educatore di una comunità minorile

Il segreto per fare l'educatore è quello di mantenere un certo distacco, cioè trovare il giusto livello di attaccamento emotivo e mantenere una certa distanza. "Questo sia a tutela dei ragazzi sia nostra. Ci sono delle situazioni talmente pesanti che se ti lasci avvicinare troppo dall’aspetto emotivo diventa difficile riuscire a viverlo come un lavoro". Gli educatori sono supportati da una psicologa che li aiuta a far emergere l'emotività che accumulano durante i giorni e i mesi che passano.

Monica è brava a mantenere una certa distanza dal vissuto dei bambini: "Mi viene naturale. Poi comunque la cosa che mi ha stupito molto è che nella vita di tutti i giorni i ragazzi sono dei ragazzi come tutti gli altri, che devono studiare e che hanno le loro necessità, come ogni ragazzo che vive nella propria famiglia originaria". Lei si fa aiutare dall'ironia: "Sdrammatizzo. Alle volte è necessario ed esce molto black humor tra noi educatori. Mi fa sempre molto ridere quando ne parlo con mia mamma. Le racconto storie assurde con il sorriso mentre lei piange". Monica è molto seria nel lavoro che fa e non prende in giro nessuno, nei momenti di distensione cerca di alleggerire la situazione con i colleghi, un po’ per creare il distacco necessario, un po’ perché altrimenti rischia di lasciarsi sopraffare.

"Alcune educatori hanno mollato. Una ha mollato perché era piena. Un’altra, invece, è andata in burnout". Monica racconta anche che i motivi che portano a lasciare la comunità non sono quasi mai legati alle storie che si sentono o alle esperienze forti che si vivono. "È l’affaticamento il problema: lavori su turni, fai le notti, il carico emotivo è enorme, lo stipendio non permette di vivere una vita dignitosa, soprattutto in una città come Milano. La nostra categoria costringe ad avere una laurea e il nostro è tra i lavori per cui è richiesta una laurea più sottopagati. Noi abbiamo uno stipendio di 9 euro lordi all’ora, io ne prendo anche meno perché non ho ancora un titolo di studio".

Una storia che Monica non dimenticherà mai

Monica ha intenzione di continuare a fare questo lavoro, almeno per il momento. Nonostante la fatica, nonostante le storie dei bambini. Se ne ricorderà sempre una in particolare. "Un bambino che aveva soltanto la mamma ed era arrivato in comunità perché la madre non era in grado di gestirlo. Dopo qualche anno il piccolo aveva tutti i requisiti per l'affidamento, così inizia il percorso di affido. Sembrava andare tutto bene. Mancava davvero pochissimo, ma si sono tirati indietro".

Doppio trauma: prima l'abbandono della madre e poi quello della famiglia affidataria. Ma non è tutto: "Il giorno in cui il bambino doveva incontrare la madre naturale, questa non si presenta e lui inizia a chiedere se le fosse successo qualcosa, se fosse morta. Una settimana dopo veniamo a sapere che la madre è morta veramente. Ora era orfano, non aveva più nessuno".

Ma non è finita qua. "Il bambino diventa adottabile, quindi si procede con questo percorso. Si avvicina a una famiglia, ma il piccolo si dimostra poco collaborativo. Anche questa si tira indietro". Secondo rifiuto. Ma una famiglia può tirarsi indietro così facilmente? "", mi spiega Monica, "Pensa che nel percorso di adozione c’è un periodo di tempo che si chiama anno di pre adozione, in cui alla fine dell’anno i genitori possono ancora rifiutare l’adozione".

"Per questo bambino noi eravamo devastati. Lui non l’ha presa bene. Abbiamo passato un altro anno con lui. Poi si è presentata una nuova famiglia e questa è andata. L’anno di pre adozione dovrebbe concludersi ora e noi non abbiamo ricevuto notizie allarmanti per cui dovrebbe essere andata questa volta".

Perché fare questo lavoro?

Stipendio basso e un lavoro difficile, sia fisicamente che emotivamente. Perché vale la pena farlo? "Perché a volte le cose vanno bene. Noi non siamo lì per salvare nessuno. I ragazzi hanno tutti una loro coscienza, una loro famiglia, un loro vissuto e ragionano con la loro testa. E noi facciamo questo, cioè cerchiamo di far capire che ragionare con la propria testa può sia farli ricadere in determinate situazione, sia funzionare. A volte capiscono che devono mettere prima il loro bene rispetto a quello degli altri e della loro famiglia. Cioè la storia del bambino che dopo due affidi, la morte della mamma e un’adozione andata male, alla fine ce l’ha fatta, per me è come un film che finisce bene e di cui non so se voglio guardare il seguito".

"Potrebbero esserci – continua – mille risvolti, ma quello che potevamo fare noi come educatori lo abbiamo fatto ed è finita bene. E questo ti dà tanto. Vedere andare via questo bambino ci ha fatto soffrire, abbiamo pianto parecchio, ma abbiamo anche detto ‘che bello'. Poi il giorno dopo abbiamo ricominciato con gli altri. L’affetto che ti danno è meraviglioso. Sai che stai facendo una cosa per il bene di qualcun altro che poi è quello che muove tutto: il bene che vuoi ai ragazzi".

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