Un 23enne finì in coma e morì dopo una dose di sedativo, indagati due medici: “Jason era sano, vogliamo la verità”
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Era davvero necessario bloccare Jason in più persone a terra? E lo era il farmaco? Sono queste le domande che hanno portato il gip a confutare l'archiviazione chiesta dal pm sul caso di Jason Mensah Brown, il 23enne che ha perso la vita il 13 febbraio 2020, dopo essere stato sedato e aver passato sei mesi in coma.
I fatti risalgono al 24 luglio 2019. Quel giorno Jason entrò nell'ufficio della polizia locale di Alzano con un mazzo di fiori e dei santini, disse di essere figlio di Gesù. Il ragazzo venne portato al pronto soccorso dell'ospedale Fenaroli dove continuò a manifestare strani comportamenti: si sedette su una sedia nudo, con addosso soltanto occhiali da sole e fiori. L'anamnesi ricapitolerà che, come riferito dalla compagna, il ragazzo aveva "allucinazioni, comportamenti bizzarri e deliranti. Diceva che qualcuno gli leggeva nel cervello e si proteggeva con il crocefisso sulla fronte".
Come è emerso dalla ricostruzioni, insieme alle allucinazione, arrivò anche l'agitazione e l'aggressività. Questo portò la dottoressa a decidere per il contenimento e la sedazione del 23enne con del Midazolam. Poco dopo aver ricevuto il sedativo, però, Jason andò in arresto cardiaco. A questo punto, venne chiamato d'urgenza il medico anestesista per rianimare il ragazzo, ma dopo esserci riuscito, Jason finì in coma.
Il ragazzo morì il 13 febbraio 2020, a 24 anni, all'Habilita di Zingonia. Dopo la sua morte è stata aperta un'indagine per omicidio colposo, sono indagati la psichiatra Federica Pezzini, 40 anni, che decise per la fiala di Midazolam, e il medico del pronto soccorso Armando Matteucci, 46 anni, entrambi difesi dall'avocato Marco Zambelli.
La morte Jason Mensah Brown: le testimonianze al processo
"Arrivai da Londra. Jason era giovane e sano, volevo la verità". Queste sono state le parole del fratello di Jason in occasione del processo iniziato dopo la morte del 23enne per omicidio colposo. Inizialmente, la pm Carmen Santoro chiese l'archiviazione degli allora quattro indagati, ma fu il gip a disporre l'imputazione coatta per due di loro. Argomentò chiedendosi: era davvero necessario bloccare Jason in più persone a terra? E lo era il farmaco?
Jason, nato in Italia da genitori del Ghana, lavorava come barbiere. "Sognavamo di aprire un negozio insieme, io sono tatuatrice. Mi aveva proposto di sposarlo", ha raccontato la compagna lecchese Federica Riva, 30 anni. Quel giorno del 2019, Jason si trovava in auto lei. "Aveva un appuntamento di lavoro a Ranica. C'era traffico, non voleva fare tardi, si infastidì e scese". All'epoca Riva parlò di attacco di panico, oggi riferisce che "era stressato per i documenti della cittadinanza. Lo chiamai 20 volte senza ottenere risposta".
Insieme a lei al processo anche Marvin, uno dei due fratelli di Jason, che ha preso il primo volo da Londra per essere in aula: "l'ho trovato rannicchiato in terapia intensiva. Volevo sapere perché mio fratello, che era sempre stato sano, fosse finito così". Si asciuga le lacrime quando dice che "nostra mamma è morta nel 2003 e nostro padre nel 2013".
È intervenuto anche il commissario della polizia locale Giansandro Caldara, ora in pensione: "Non mangiava e non dormiva da sette giorni, fumava cannabis, era irascibile. Era aggressivo nei confronti della dottoressa. A parole, ma ha anche cercato di alzare le mani. Lei chiese un lettino di contenimento ma non c'era, disse che bisognava contenerlo e sedarlo altrimenti si sarebbe fatto male. Era fortissimo, lo tenevamo in cinque. Dopo tre tentativi, l'infermiere riuscì a sedarlo".
Le testimonianze e i dettagli sono tante e diverse. Per comprendere l'esatta dinamica della vicenda e fare luce sull'accaduto, saranno centrali le consulenze e la testimonianza della dottoressa di Treviglio che, secondo la compagna e uno dei fratelli del ragazzo, parlò di un possibile collegamento tra il coma e li sedativo.