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Morti al Trivulzio: il rischio sottovalutato e gli altri dubbi evidenziati dai pm che hanno indagato

Fino ad aprile 2020 al Pio Albergo Trivulzio la pandemia è stata sottovalutata. Ci sono stati i ritardi per l’adozione di dispositivi di protezione sanitari e gli operatori sanitari non sono stati formati abbastanza. Tutto confermato da Comitati tecnici, commissioni e testimonianze di sanitari e parenti degli ospiti del Pat, ma non è sufficiente per dimostrare con assoluta certezza un nesso di causa tra la diffusione del virus all’interno della struttura e una responsabilità della direzione del Trivulzio. Per questo il pubblico ministero, al termine di 18 mesi di indagini, ha chiesto al giudice per le indagini preliminari l’archiviazione del caso.
A cura di Giorgia Venturini
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Mancano nessi causali tra la diffusione del Coronavirus all'interno del Pio Albergo Trivulzio e le condotte adottate all'interno della più grande struttura di cura di Milano. Una mancanza che si traduce in un ostacolo insuperabile nella "impossibilità di tracciare con ragionevole certezza il percorso del virus dal suo ingresso alla diffusione all'interno della struttura del Pat". Con questa motivazione il pubblico ministero Mauro Clerici ha chiesto al giudice per le indagini preliminari che l'inchiesta che per 18 mesi ha indagato sugli oltre trecento morti da Covid nei primi mesi della pandemia al Pat venga archiviata. Carenze e "zone d'ombra" nella gestione del virus ci sarebbero state, ma non sarebbero sufficienti per avviare un processo per epidemia colposa e omicidio colposo.

Nei mesi di indagini la Procura aveva affidato a un gruppo di esperti le ricerche più tecniche e scientifiche su quanto accaduto: "Il Comitato tecnico nella sua relazione ha sottolineato come l'applicazione di efficienti misure di isolamento dei pazienti all'interno della struttura, di screening tra ospiti e lavoratori e di formazione di tutti gli operatori della struttura avrebbero con ogni verosimiglianza limitato la diffusione del contagio all'interno del Pat". Perché quello che sembra (quasi) certo è che ci sia stata una sottovalutazione del rischio fino ad aprile del 2020. Ma è sufficiente per l'accusa di epidemia colposa? Per il pm no.

Ritardi nell'adeguato utilizzo delle mascherine nei reparti

Di certo qualcosa nelle struttura con l'avvio della pandemia non è andato: stando alcune testimonianze di operatori sanitari e parenti degli ospiti presenti nelle struttura, almeno fino ai primi giorni di marzo l'utilizzato delle mascherine all'interno del centro di cura era disincentivato. Come precisato dalla Procura, il personale sanitario aveva ricevuto dispositivi di protezione individuali, come guanti e mascherine, adeguati ma non sufficienti, oltre che in forte ritardo. Fino alla metà di marzo infatti la fornitura di mascherine protettive era limitata a quei dipendenti che presentavano condizioni di salute particolari, ovvero quelli definiti "i fragili". In un bollettino della struttura datato 15 marzo 2020 veniva ribadita la scarsità dei dispositivi di protezione, in particolare mascherine FFP2 e chirurgiche. Veniva però anche raccomandato un loro uso adeguato quando si veniva in contatto con pazienti Covid-19.

Mancanza di screening e percorso formativo

Ma c'è di più: è stato anche accertato che il personale, anche se in possesso di dispositivi sanitari, non è stato supportato da un idoneo percorso formativo. "In sintesi, l'attività formativa ed informativa svolta per istituire il personale rispetto ai rischi lavorativi generati dall'andamento epidemico-pandemico e all'utilizzo dei dispositivi di protezione individuale risulta carente, soprattutto fino alla metà del mese di marzo". In ultimo non è stato possibile tracciare il percorso del virus all'interno del Pat. Fino ad aprile 2020 è mancato infatti qualsiasi screening di massa sulla positività degli ospiti e del personale. Resta però da sottolineare anche che fino ai primi di aprile a livello regionale "la verifica mediante tampone era raccomandata solo su pazienti sintomatici in caso di ricovero in ospedale – ovvero in situazione ormai critica". Difficile dunque avere certezze su quanti erano gli ospiti con sintomi lievi o addirittura assenti, fonte però di contagio. Per questo le indagini degli esperti si sono concentrati solo sui casi di decesso: hanno analizzato 400 cartelle cliniche. Nei primi mesi della pandemia analizzati, i decessi per Covid sono stati 103 e hanno rappresentato circa il 32 per cento del totale dei decessi. Certo è che l'accesso di mortalità in quel periodo è da ricondurre alla pandemia: i decessi per cause diverse dal Covid-19 infatti, sempre considerando gennaio e aprile 2020, non si discosta dalla media storica. Per il gruppo di esperti la diffusione epidemica del virus all'interno della struttura è da ricondurre a uno o più fatti avvenuti circa 10 o 20 giorni antecedente l'inizio dell'importante aumento dei decessi registrati a fine marzo.

Da capire cosa è riconducibile a una responsabilità umana

Tutte carenze e mancanze accertate anche dalla Commissione d'Inchiesta sul Pat, disposta da Regione Lombardia e creata da Ats Milano. E anche alcuni dirigenti medici del Pat, sentiti dal pm, hanno espresso critiche per tale iniziale sottovalutazione del rischio. Per la Procura però manca da chiarire quali procedure e in che misura queste carenze siano state oggetto di specifica delibera da parte dell'amministrazione regionale e della direzione della struttura. E ancora, per dare seguito a una richiesta di rinvio a giudizio bisogna capire anche se la carenza di dispositivi di protezione sia dovuta a cause di forza maggiore – nei primi mesi di pandemia era difficile procurarsi mascherine – oppure a una responsabilità umana. Tutte risposte che ora non sia hanno e che resta difficile anche avere nei prossimi mesi. Per questo ad oggi c'è solo una richiesta di archiviazione, così come per le altre indagini aperte su altre case di cura di Milano.

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