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Titolare di un agriturismo violenta una dipendente: “Se ci stai ti metto in regola”. Condannato

La Cassazione ha confermato la condanna a sei anni e mezzo di reclusione nei confronti di un uomo che, nel 2017, violentò una sua dipendente nell’agriturismo in cui lavorava come lavapiatti senza contratto fisso. Durante e dopo la violenza le avrebbe promesso di regolarizzarla.
A cura di Francesco Loiacono
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Immagine di repertorio
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È diventata definitiva la condanna a sei anni e mezzo inflitta al titolare di un agriturismo della Val Seriana, in provincia di Bergamo. Nel 2017 l'uomo ha violentato una sua dipendente, impiegata come lavapiatti senza contratto fisso, dicendole durante la violenza: "Se ci stai ti metto in regola". Una sorta di viscido ricatto che l'uomo avrebbe reiterato chiedendo alla donna altri rapporti con lui. La donna, che all'epoca dei fatti doveva mantenere dei figli piccoli e aveva diverse difficoltà economiche, era stata aggredita dal titolare mentre si stava cambiando nello spogliatoio riservato al personale. Alcuni giorni dopo la violenza il titolare dell'agriturismo aveva perfino pagato la vittima della violenza aggiungendo 30 euro alla somma che le doveva per un turno di lavoro: un regalo, secondo quanto aveva dichiarato l'uomo. A causa delle conseguenze fisiche di quella violenza la donna era finita in ospedale con una prognosi di due mesi: poi, grazie al sostegno del personale medico e degli assistenti sociali, aveva trovato la forza di denunciare il suo titolare.

Alla donna un risarcimento di 45mila euro

La Cassazione ha confermato non solo la condanna nei confronti dell'uomo, al quale non sono state riconosciute le attenuanti generiche, ma anche il risarcimento di 45mila euro nei confronti della vittima della violenza. Il titolare dell'agriturismo, ora chiuso, in tutti i gradi di giudizio aveva provato a difendersi sostenendo la tesi di un "gesto occasionale" e definendosi un "onesto lavoratore" e "un padre di famiglia sempre rispettoso delle regole". Ma la Suprema corte ha confermato la correttezza della sentenza d'appello (pronunciata nel 2021, mentre quella di primo grado era arrivata nel 2019), sottolineando il disvalore della condotta dell'uomo che ha approfittato della sua posizione sovraordinata per abusare della donna.

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