Stefano Binda a Fanpage.it: “Così ho pagato, in carcere da innocente, l’omicidio di Lidia Macchi”
Era il 5 gennaio del 1987 quando Lidia Macchi, 21 anni, esce di casa per andare a trovare una sua amica ricoverata all'ospedale di Cittiglio, in località Sass Pinin, in provincia di Varese, ma la sera non fa più ritorno a casa. Il corpo senza vita della 21enne è stato trovato due giorni dopo, in un bosco vicino all'ospedale.
Gli accertamenti sul cadavere diranno che Lidia è stata prima violentata e poi uccisa a coltellate. Il nome di chi ha impugnato il coltello resta ancora sconosciuto, ma per tre anni – dopo una sentenza di primo grado all'ergastolo – era finito in carcere ingiustamente un suo conoscente della zona: Stefano Binda.
L'uomo è stato poi riconosciuto innocente sia dai giudici della Corte d'Appello sia della Cassazione. La sua storia Binda lo ha raccontata a Fanpage.it. "Il 15 gennaio del 2016 ero in casa mia nel mio letto quando la squadra omicidi mi hanno arrestato e portato in carcere con l'accusa di aver ucciso Lidia Macchi".
Conosceva Lidia?
Non è che fossimo amici stretti, ma ci conoscevamo sicuramente. Frequentavamo entrambi il liceo classico di Varese e Gioventù Studentesca, sezione giovanile Comunità e Liberazione.
Perché la Procura ha iniziato a indagare su di lei?
Gli inquirenti mi avevano ritenuto l'autore di uno scritto anonimo recapitato alla famiglia il 10 gennaio. La Procura era certa che era stato scritto dall'assassino perché conteneva delle informazioni che secondo loro potevano essere conosciute solo dall'assassino. Come il verso "il cielo stellato". Quella sera a Cittiglio, come nel resto della Lombardia, c'erano le stelle.
La Procura generale aveva preso lo scritto e lo aveva fatto analizzare da un consulente. La busta invece l'aveva mandata ai Ris di Parma che hanno escluso che le tracce di Dna appartenessero a me. Tutte prove che poi la Corte d'Appello e la Corte di Cassazione hanno riconosciuto come "neutre" e quindi a favore della mia innocenza.
Non solo: nella borsetta che Lidia aveva con sé è stato trovato anche un suo manoscritto che parlava di una persona di cui era innamorata. Parlava di un amore impossibile. Per la sentenza di primo grado, che mi ha condannato all'ergastolo, questo manoscritto era rivolto a me.
L'accusa sosteneva che l'impossibilità di questo amore era da ricercare nella mia tossicodipendenza, che allora però non era ancora così consolidata.
Come ha trascorso i suoi giorni in carcere da innocente?
I primi tre giorni li ho passati a studiare le carte. Sapevo che sarei andato a processo con prove dell'accusa che erano interpretazioni assolutamente opinabili. Tutte interpretazioni demolite dalla Corte d'Appello perché costruite su un deserto probatorio.
Ho passato in carcere tre anni, sei mesi e otto giorni. Sono stato in tre carceri diverse, sono stato in isolamento per i primi sei mesi. A Busto Arsizio sono stato sorteggiato per lo sportello amico in cui mi occupavo dell'amministrazione. Spesso aiutavo i detenuti stranieri con l'italiano.
Cosa ha pensato quando in primo grado ha sentito con condanna all'ergastolo?
Non me lo aspettavo, nessuno mi poteva preparare a questo. Quando sul foglio leggi ‘fine pena mai' provi solo un grande vuoto.
Cosa accade in Appello?
Si riapre l'istruttoria dibattimentale quando è stato riascoltato un teste che era stato escluso. Il 24 luglio del 2019 vengo assolto con formula piena e quindi scarcerato. Il 27 gennaio del 2021 la Corte di Cassazione ha reso definitiva la mia assoluzione per non aver commesso il fatto. Sia nel secondo che nel terzo grado di giudizio è stato riconosciuto il deserto probatorio. Prove di colpevolezza non ce ne sono.
Il suo nome già dal giorno dell'arresto è comparso ovunque? Si è preoccupato dell'opinione pubblica?
Si è puntato alla demolizione della mia persona. Oltre alla questione legata all'omicidio, la gente parlava della mia tossicodipendenza e c'è chi parlava di ambiguità sessuale. Sono stato calunniato.