“Se hai un figlio piccolo non posso assumerti”: abbiamo provato a cercare lavoro, il video delle risposte
Sono 44.699 le donne che hanno lasciato la loro professione nel 2022. Lo dice l'ultimo rapporto dell'Ispettorato del lavoro, pubblicato a dicembre 2023. Un dato che rappresenta il 72 per cento delle dimissioni totali (61.391), con un aumento del 18,7 per cento rispetto all'anno precedente. La sintesi dell'Ispettorato sui dati raccolti afferma che il dimissionario tipo è genitore di un figlio di età tra zero e un anno, prevalentemente donna.
"Nell'ultimo anno – commenta a Fanpage.it Gloria Daluiso, avvocata del lavoro – c'è stato un incremento notevole delle dimissioni da parte delle lavoratrici madri, soprattutto dovute al fatto che non riescono a conciliare lavoro e vita privata".
Con una precisazione importante: “In realtà – aggiunge Daluiso – quel ‘non riescono' sembra quasi voler riportare il tema sulla donna, quindi su un deficit delle mamme, ma tale difficoltà è invece legata alle condizioni esterne, tanto del lavoro quanto della società".
Una società dove il binomio mamma-lavoratrice è ancora un ossimoro. Anche a Milano, città del lavoro per eccellenza. Qui abbiamo raccolto le storie di Federica e Camilla. Entrambe, in concomitanza o in seguito alla gravidanza, raccontano di essere state costrette a lasciare il lavoro.
Federica, "La maternità era un benefit"
"Dopo anni in Cina – racconta Federica a Fanpage.it -, sono tornata in Italia e ho iniziato a lavorare come sales manager per un'azienda. Andava tutto molto bene, fino a che, nel 2021, rimango incinta. Era una gravidanza voluta, ma purtroppo il mio compagno e io abbiamo scoperto quasi subito che nostra figlia aveva una malattia genetica rara. Essendo quindi la mia una gravidanza a rischio, avevo necessità di rallentare i ritmi lavorativi. Al lavoro questo non è stato preso bene: mi è stato proposto lo smart working, ma venivo vista come ‘privilegiata', in pratica non era più un mio diritto potermi dedicare alla mia gravidanza, era un benefit".
Federica si sente sempre più sotto pressione, in un momento già difficile e delicato: "Provavo ansia e stress – ricorda -, avevo la sensazione di essere giudicata negativamente: c'era sempre qualcosa che non facevo bene, magicamente per loro non producevo più come prima e le stesse cose che prima lodavano erano diventate sbagliate".
Una condizione a cui si aggiungono commenti poco opportuni. "Ad altre mie colleghe più giovani – dice Federica – era stata fatta la battuta chiara ‘Eh adesso non rimanete incinta anche voi però, mi raccomando'. Oppure, magari riferendosi alla maternità di un'altra collega, veniva detto “X non fa cinque mesi di maternità, ha detto che dopo due mesi ritorna e comunque è sempre reperibile'. Come se fosse quello che avremmo dovuto fare tutte. Un giorno mi sono sentita dire ‘X ha performato tot e ha due figli, tu non ne hai ancora e performi meno di lei'”.
"Sarei potuta rimanere – spiega la donna -, ma sapevo che sarebbe stata una permanenza scomoda, per loro e per me, perché avrei continuato a lavorare per persone che non avevano rispetto e fiducia in una loro dipendente. Quindi ho deciso che la cosa migliore per me era lasciare: non potevo reggere, in concomitanza a quella gravidanza già difficile, il peso di una pressione lavorativa malsana".
Camilla, "Il mio capo aveva il terrore che rimanessi incinta"
Camilla, dopo anni all'estero, torna a Milano dove lavora per un'agenzia specializzata nell'organizzazione di eventi di lusso. "In quel settore – racconta a Fanpage.it – i ritmi erano particolarmente impegnativi a livello di orari, avevo una reperibilità che era quasi 24 ore su 24, sette giorni su sette. Mi andava bene finché non sono rimasta incinta e ho avuto un bambino".
"Tornata dal periodo di maternità, con un piccolo di sette mesi, era impossibile per me avere quel tipo di reperibilità – spiega Camilla -, ero molto stanca e quando io ho iniziato a non rispondere al telefono a tutte le ore, a non essere più disponibile il weekend o la sera, è creato un clima di malcontento".
"Avevo un profondo senso di colpa mio per non riuscire a rendere sul lavoro tanto quanto rendevo prima e non essere disponibile quanto lo ero stata, ma non potevo fare altrimenti. Il mio capo, che era terrorizzato al pensiero che facessi il secondo figlio, un giorno mi ha chiamata nel suo ufficio e mi ha chiesto di licenziarmi".
"Avevo percepito del malcontento, ma non pensavo che si arrivasse a questo ed ero scioccata, oltre che impaurita. Il mio capo, un uomo di potere, sperava che mi sarei licenziata senza battere ciglio. Invece mi sono informata attraverso un consulente del lavoro e ho proposto un patteggiamento, cioè mi sono fatta licenziare con una buona uscita, anche se bassa".
Maternità. E dopo?
Il reinserimento professionale dopo la maternità in Italia non è ancora un principio scontato. Lo dimostra il proseguo della storia di Federica.
"Ero convinta di avere ancora delle competenze spendibili nel mondo del lavoro, a Milano, per potermi reinserire – spiega la donna -. Invece, dopo che è nata mia figlia, ho mandato tantissimi curriculum, ho fatto decine di colloqui, ma non sono mai riuscita a ricevere una proposta di lavoro compatibile con la mia situazione familiare".
"Ricordo un colloquio fatto a marzo dell'anno scorso – continua Federica – dove alla domanda ‘Hai figli?‘, la mia risposta è stata ‘Sì, ho una figlia di due anni'. A quel punto chi mi faceva il colloquio mi ha riso in faccia e mi ha detto ‘Ma cosa ci fai qua a farmi perdere tempo?'. Alle volte mi è stato detto che ‘Tua figlia è troppo piccola, devi aspettare che abbia almeno 5 o 6 anni'. Io però se rimango fuori dal mondo del lavoro per altri quattro o cinque anni, avrò ancora meno possibilità di essere assunta".
L'esperimento di Fanpage.it
Per verificare l'effettiva difficoltà delle mamme a rientrare nel mondo del lavoro abbiamo deciso di metterci nei loro panni e andare alla ricerca di un impiego, specificando di avere figli piccoli.
Entriamo in un negozio di abbigliamento femminile in uno dei corsi più centrali della città. Sulla vetrina c'è il cartello "Cercasi commessa". Ci presentiamo, l'esperienza non è un requisito richiesto dal momento che il ruolo da ricoprire sarebbe quello di "apprendista part time".
"Ho un bimbo di un anno e mezzo", mettiamo in chiaro durante la chiacchierata con quella che pare sia la proprietaria del negozio.
"Questo è un problema – ci risponde -, perché chi se lei non c'è chi copre i turni? Cioè, l'emergenza può capitare, però mi rendo conto che con un bambino piccolo è abbastanza frequente. Cercavamo una ragazza (non mamma, ndr), perché ovviamente è un po’ più libera".
Non ci scoraggiamo ed entriamo in una boutique di abbigliamento maschile poco distante. Anche qui, c'è un cartello che annuncia la ricerca di personale. Chiediamo informazioni.
"Avete dei parametri particolari?"
"No", dice il signore presente all'interno del locale.
"Chiedevo perché io ho un bimbo di un anno e mezzo", precisiamo.
"Eh – sobbonchia -. Così diventa poco gestibile. Perché le spiego, lei è qua, deve correre per forza dal bambino, vuol dire che il negozio va chiuso".
Dei parametri c'erano: "Quindi state cercando una persona che non abbia figli piccoli?"
"Al momento sì".
Proseguiamo la nostra ricerca bussando alla porta di una grande catena, dove forse è frequente e quindi più collaudata la gestione della maternità. Al bancone del negozio c'è una donna molto gentile, che ci invita a mandare il curriculum, spiegandoci che, essendo manager, lei stessa si occupa della reclutazione del personale. Incoraggiati, le facciamo presente la nostra situazione.
"Sono mamma di un bimbo di un anno e mezzo, mi consiglia o sconsiglia di inviare il cv?"
"Mmm – risponde perplessa – sconsiglio. Sono sincera, perché un bambino piccolo capisco che possa giustamente metterla in condizioni magari di preferire un part time".
Visto l'insuccesso nei negozi, proviamo con un bar. Anche qui è esposto in bella vista il cartello di ricerca personale. Entriamo e ci assicurano che la paga è buona e che vogliono una persona con esperienza. Sembra andare tutto bene, finché non mettiamo in chiaro la nostra situazione familiare.
"Ho un bimbo di un anno e mezzo".
L'espressione dell'uomo con cui stiamo parlando cambia. "Con un bambino piccolo, se si ammala devi stare a casa. Non posso prenderti, perché se assumo una persona vuol dire che ho bisogno, se tu mi fermi mi metti in difficoltà". Poi la stangata finale: "Se non hai suocera o mamma, devi stare a casa".
Rimettersi in gioco, ma poter giocare alla pari
"Dopo il licenziamento – racconta Camilla – ho deciso di reinventarmi la vita. Nel 2020 ho aperto una società con la mia migliore amica; sono insegnante di diverse discipline dello yoga, che insieme alla mia socia porto nei più svariati ambiti, ma ho sempre mantenuto una lezione in gravidanza e una per le mamme e i bambini, proprio perché quando sono nati i miei figli (Camilla ha avuto una bambina dopo il licenziamento, ndr) mi sono sentita tanto sola e quindi cerco di stare vicina alle neo mamme attraverso lo yoga".
Federica invece sta ancora cercando. "Ho provato a reinventarmi in qualche modo, non sono ferma lavorativamente, però la me lavoratrice dipendente, con una certezza economica alle spalle, oggi non c'è più. Non voglio scalare la vetta della carriera, desidero solo la dignità di potermi reinserire nel mondo del lavoro. A volte ricevo commenti di persone che mi dicono ‘Non ne hai bisogno, perché altrimenti andresti a fare la cameriera o che a lavare i bagni'. Tolto che sono lavori comunque rispettosi, se fosse necessario andrei a fare anche quello, però, visto che ho studiato altro e mi sono impegnata, non vedo perché non debba ancora sperare di avere una professione in linea con le mie competenze".
Lavoro e maternità. Che cosa fare?
Demansionamento, trasferimenti in sedi lontane, negazioni di permessi previsti dal contratto, fino ad arrivare a veri e propri episodi di mobbing. Sono violazioni di legge e non possono passare sotto silenzio.
"Sono diversi – dice l'avvocata Daluiso – i casi di questo genere che mi vengono sottoposti da donne rientrate al lavoro dopo la maternità. La legge può tutelare in tal senso, ma servono gli strumenti perché sia applicata".
E infatti il problema non è tanto e non è solo a livello legislativo, quanto soprattutto culturale. I diritti ci sono, ma vengono camuffati da privilegi.
"La prima cosa da fare – consiglia Daluiso – è prevenire. Quando rientrate dalla maternità e vedete una riorganizzazione aziendale che vi coinvolge direttamente, con violazioni dei principi previsti dalla legge (una neomamma al rientro non può essere demansionata o trasferita lontana dalla sede dove lavorava precedentemente, ndr) chiedete subito un incontro con le risorse umane, fatevi assistere, se c'è, da un sindacato interno, oppure da un legale".
La conclusione di questo viaggio nel mondo delle mamme al lavoro l'affidiamo alle parole di Federica: "La mia storia è quella di una donna che ha lasciato il lavoro per la sua maternità, ma è soprattutto la storia di una donna che vorrebbe rimettersi in gioco e non riesce, perché è madre. A 36 anni e con un figlio di due anni non è possibile pensare di essere inutile per la società".