Rafael Didoni, dai centri culturali al Milanese Imbruttito: “Rimpiango la vecchia Milano con le case di ringhiera”
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Rafael Didoni, milanese, classe 1971 è un cantautore, poeta, comico, speaker radiofonico. A Fanpage.it ha ripercorso la sua carriera e anche il suo rapporto di amore e odio con la sua città, Milano. "Ha uno skyline che può essere indubbiamente più affascinante di quello delle case di ringhiera, però rimpiango un po' la vecchia Milano. Questo nuovo vestito, secondo me, un po' le va stretto", ha raccontato a Fanpage.it.
C'è una qualifica che ti identifica maggiormente?
Direi di sì. Come a volte mi piace dire io in realtà nasco poeta. È la radice, la mamma di queste mie derivazioni artistiche. La comicità e il cantautorato hanno come mamma comune il fatto di avere iniziato, al tempo delle superiori, a scrivere poesie. Come tutti gli adolescenti avevo un magma emotivo da dipanare e da capire.
Proprio a scuola la professoressa d'italiano ci diede un compito: provare a scrivere una poesia in amor cortese. Questo mi ha aperto un mondo e la possibilità di andare a cercare nel mio pozzo emotivo qualcosa di profondo, di nero, di scuro, dove erano racchiuse le emozioni che non riuscivo a decifrare o che mi muovevano e un po' mi accompagnavano. Ero molto triste.
Da comico mi fa ridere questa cosa di essere stato molto "nero" e poi di avere capito, con un gioco di parole, che volevo mi seppellisse una risata e non una cosa triste. La poesia ha iniziato veramente a darmi la possibilità di andare a toccare corde che non conoscevo. È stato difficile perché ovviamente la poesia era molto ermetica, molto chiusa, poco chiara. Non mi serviva un
mezzo per comunicare il mio malessere, mi serviva per rileggerlo e per avere uno specchio delle mie emozioni.
Agli inizi è stato un po' così, poi ho scoperto che là dentro c'era tanta possibilità espressiva, che oggi tendo a usare per far ridere, per comunicare in una maniera più leggera.
Dal 1995 sei proprio un protagonista delle comicità underground milanese. Di che si tratta per chi non la conoscesse?
La comicità underground erano spazi perlopiù sociali (noi siamo partiti con il Centro Culturale Scaldasole sui Navigli) dove l'ingresso era gratuito e un manipolo di comici si ritrovava una volta alla settimana e poteva dire quello che aveva scritto e prodotto: io, con Angelo Cicognani, all'inizio facevo teatro comico con situazioni surreali.
Io non avevo mai voluto fare il comico: è successo. Mi è stato chiesto di giocare, in qualche modo. Ho raccolto una possibilità grazie agli spazi sociali e a questo underground, che era un sottobosco non dichiarato, istintivo, notturno, un po' carbonaro.
Assieme a me c'erano tanti personaggi che oggi sono televisivi. Eravamo tutti ventenni, desiderosi di "cazzeggiare" intelligentemente, cogliendo anche un po' le radici del cabaret milanese, che era quello di prendere il malessere della città e di
trasformarlo. Eravamo gli alchimisti della parola, del teatro, della comicità.
Quanto è difficile far ridere oggi?
Tantissimo, ma in realtà credo sia più facile di ieri. Prima si doveva ragionare su quelle che erano un po' le cose che non andavano. Oggi si cerca di scioccare e basta. Non c'è bisogno di sapere che cosa è successo prima. Siamo molto più costretti, come visione.
Credo che, nel passato, ci sia stato bisogno di comprendere dov'eri e quale fosse lo strumento e perché usarlo. Oggi basta poco. Soprattutto il contenuto spaventa e annoia quindi c'è bisogno di un po' di superficialità. Magari è un modo per uccidere i padri. I nostri padri erano talmente intelligenti che, competere con quella cultura e con quell'intelligenza, è difficile. Forse i giovani di oggi, che vogliono arrivare a far ridere, vi arrivano frazionando quella storia e non comprendendola.
In tutto questo, i social che ruolo hanno avuto?
Sono un fiume in piena dentro il quale scorrono un sacco di correnti. Servono tantissimo i social. Oggi vedo le mie figlie adolescenti, che guardano cose che fanno ridere ma che sono frutto quasi di scenette anni '30, cioè di una stupidità. Però, vengono veicolate in maniera molto veloce, semplice, consumabile.
Quindi, in qualche modo, questa leggerezza vince e la possibilità di veicolare continuamente e quotidianamente contenuti, fa massa e fa massa anche di platea.
Hai formato il gruppo Democomica e sei definito tra i più originali cabarettisti italiani per la tua vena surreale. Quanto la realtà ispira la tua vena surreale?
La mia vena surreale è tutto. La realtà un po' mi spaventa. Per me il surreale parte dalla realtà, ma è veramente un trampolino che serve per andare più in alto. Questo non vuol dire che serva trovare cose più intelligenti, ma per trovare un'alternativa a una lettura che un po' appiattisce. Il surreale crea uno spessore che il reale in questo momento non ha.
Sei anche attore per il terzo segreto di Satira e per il Milanese Imbruttito. Qual è il tuo rapporto con Milano? Di amore, odio o che altro ancora?
È di amore assolutamente. Di un amore sempre meno corrisposto. Sarà anche per l'età, ma ci amavamo di più quando eravamo giovani. Ci vivevamo di più, eravamo più complici. Io, questa città, la vivevo di notte quando la si vedeva meno. Oggi si vede un po' troppo. Quel vedo-non vedo mi affascinava di più.
Oggi Milano cerca di essere un po' quello che non è, sta forzando degli aspetti e tradendone altri. Questa cosa mi dispiace. Dopodiché è sicuramente più bella, ha uno skyline che può essere indubbiamente più affascinante di quello delle case di
ringhiera, però rimpiango un po' la vecchia Milano. Questo nuovo vestito, secondo me, un po' le va stretto.
Sei docente presso l'Accademia del comico. Che cosa insegni e, soprattutto, che cosa vuoi insegnare?
Mi è stato chiesto di insegnare poesia e comicità. Potendo scegliere mi piacerebbe partire dalla poesia, prima che dalla comicità. Parto dalla poesia perché, per me, la sensibilità dovrebbe guidare anche il comico. Al comico spetta la possibilità di trovare, nelle parvenze, qualcosa di universale.
Io devo poter parlare a tutti ed essere compreso, partendo però da un punto di vista originale, che porti anche le persone che
mi ascoltano ad allargare la propria visione e a riderne, volendolo. La poesia e la comicità sono due aspetti della stessa medaglia. Spesso dico che il comico è un poeta ottimista che, con quella sensibilità, riesce a vedere la luce in fondo al tunnel.
La musica che cosa rappresenta per te?
Per me la musica è il vestito dentro il quale mettere le parole e le immagini. Io sono figlio di De Andrè, di De Gregori, cantautori che hanno saputo con le loro canzoni mettere in poesia immagini meravigliose, che avevano una capacità di
evocare altro. La musica è una magia che amplifica, trasmette e continua a portare immagini nuove e a solleticare la tua capacità d'immaginare.
Quanto è importante far brillare il proprio talento, ma anche quello dei compagni di palco?
Io sono nato come spalla. Il gregario è una figura fondamentale nella comicità. È sapere ascoltare, cogliere il ritmo dell'altro, servire la palla e non per forza schiacciarla e fare punto. Mi ha sempre divertito di più essere partecipe di un gioco, di una complicità. Brillare sul palco significa, per me, avere il coraggio di manifestarsi con il proprio pensiero senza vergognarsi o avere paura di essere gentili e di dire la tua verità. Oggi, si teme un po' tutto: stiamo tutti nel nostro senza sconfinare mai.
L'artista ha però un compito: quello di sconfinare dalle proprie emozioni e di farle vedere. Farsi vedere e palesarsi non è sempre semplice. Io spero di farlo con il mio spettacolo che s'intitola “Briciole” , insieme ad Antonio Baldassarri che mi accompagna alla chitarra. In questo spettacolo mi sono svestito e mi sono raccontato, senza negare tutti gli aspetti che mi compongono.
Quale Milano sogni?
Sogno una città più accogliente, meno insofferente, che soffra un po' meno e si diverta di più a essere quello che è senza far finta di essere quello che non è.
Un'ultima domanda: aprendo il famoso cassetto, quale sogno di Rafael Didoni troviamo?
Vuoto dei sogni che avevo e da riempire di nuovi sogni. Voglio continuare ad avere sogni e la volontà di portarli fuori da quel cassetto. L'importante è avere progetti sino all'ultimo respiro.