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Omicidio di Giulia Tramontano

Prima vanto poi pedina da eliminare: per Impagnatiello, Giulia Tramontano era tutto tranne che una persona

Alessandro Impagnatiello ha trattato Giulia Tramontano e la collega con la quale aveva una relazione come “un vanto” e delle “pedine”. Ha poi eliminato la compagna e il figlio che portava in grembo per poter mantenere “il suo stile di vita”.
A cura di Piero Colaprico
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Tra "vanto" e lo "svanire", di mezzo c’è l’omicidio. Messa così la questione non è chiarissima, ma ci arriveremo. Innanzitutto, non c’è follia in Alessandro Impagnatiello, è capace d’intendere e volere. Questo dice la perizia chiesta dalla Corte d’Assise. È per mantenere il suo "stile di vita" che Impagnatiello ammazza la fidanzata Giulia Tramontano e il figlio Thiago che portava in grembo.

Ma si fa fatica a concepire in che cosa consiste lo stile di vita di uno come il barman che vedeva – sono parole sue, riferire agli psichiatri – in Giulia, la sua convivente, "un vanto", anzi "un vanto totale"; e nella collega arrivata da Londra, "una bellissima ragazza", con la quale aveva intrecciato una relazione, un altro "vanto".

Quindi il suo stile di vita era passare, come spiega sempre lui con gli psichiatri, "da vanto a vanto".  Si trovava "in un’altalena".  Oppure, davanti a una scacchiera "con due pedine da spostare". Le parole sono importanti, in letteratura come in psichiatria. Giulia e la collega: donne come dunque pedine.

O come oggetti delle quali bearsi: donne come gratificazione, donne delle quali vantarsi chissà con chi e chissà come. E lui? Lui
è l’enigmista che studia strategie (sempre più sbagliate), il burattinaio che medita e agisce: dà di nascosto il topicida per l’aborto all’una e il contentino di una cena all’altra. E le emozioni? Lontane per Impagnatiello come vaghe stelle dell’Orsa.

Finché, quando le due donne-pedine si animano e, sfuggendo dalla ragnatela del molto presunto stratega, s’incontrano, e discutono di lui e delle sue bugie a getto continuo, e hanno pure un lungo confronto sotto la terrazza dove lui serve i cocktail e traffica con le mance, "ho visto tutto svanire, ho visto la mia sconfitta", dice così Impagnatiello. Svanisce anche il vanto.

Tutto questo però non è follia. Gli psichiatri lo hanno spiegato benissimo. L’aula di giustizia non è uno studio tv. Bisogna essere precisi, quando si è consulenti. E i magistrati e gli avvocati spaccano il capello in quattro. Ne va della vita futura dei parenti delle vittime e ne va della vita futura anche dell’imputato e dei suoi cari.

Le sentenze sono emesse "in nome del popolo italiano". Quindi, esiste il disturbo ed esiste modo di essere. Impagnatiello è un narcisista, ma questo è un "tratto della personalità". Può essere anche un po’ paranoico (ma chi non lo è un minimo?): ma il vero paranoico sospetta di tutto e tutti e reagisce male a ogni "intrusione". Invece Impagnatiello è un barman che interagisce con i clienti, con le donne, con il figlio, con i parenti, non dà in escandescenze, non è un pazzoide.

Anzi, la follia manca del tutto. Per di più, leggendo le carte, appare un suo maldestro tentativo di trasformarsi da detenuto in piccolo psicologo. "Cosa può esserci di diverso da me rispetto a me oggi rispetto a me di quasi un anno fa? Perché io proprio mi vedo completamente, mi sento completamente diverso. Non sarei riuscito a intrattenere conversazioni di questo genere fino a pochi mesi fa".

Sino alla fine, insomma, Alessandro Impagnatiello ci ha provato a fare il dritto. Pure con gli psichiatri. I quali, avendo letto migliaia di libri e non preparato migliaia di cocktail, avendo affrontato centinaia di pazienti in cerca di salute e non centinaia di clienti in cerca di nuovi sapori con ghiaccio a cubetti, l’hanno capito (e come non potevano capirlo?).

Impagnatiello, raccontano ai giudici, è "sostenuto e orgoglioso". E, durante i quattro colloqui, "è sempre stato molto evidente il suo atteggiamento di ‘gestione’ degli incontri, il tentativo di dettare i tempi, di pesare attentamente i contenuti delle risposte, indirizzando l’indagine lungo binari a se favorevoli, con particolare attenzione per le proprie necessità e i propri bisogni".

Impagnatiello, che si crede furbo, ma non lo è. Non più. Non di fronte ai periti psichiatri. Sin dall’inizio di questa tragedia, guardando alle indagini e alle risposte di Impagnatiello, ascoltando le sue lacrime durante le udienze e le sue dichiarazioni, veniva naturale chiedersi: ma "ci è" oppure se "ci fa". Pazzo non è il termine giusto, né scientificamente, né in nome del politicamente corretto, una cosa è ormai certa e certificata: non "ci è". E se "ci fa", e quando "ci fa", lo valuteranno
meglio in giudici, infliggendo le eventuali aggravanti di un caso che ormai appare totalmente e perfettamente sviscerato.

La vita precedente che Impagnatiello sognava per sé e per il suo narcisismo è svanita, il vanto per le due donne-pedine gli si è ritorto contro con la forza di uno tsunami. Il suo stile di vita si è trasformato in uno "stile di morte".

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Piero Colaprico. Liceo al collegio Morosini, laurea in legge a Milano, assunto nel 1985 da Repubblica, nominato nell’89 inviato speciale, nel 2006 responsabile del settore nera e giudiziaria, nel 2017 capo della redazione. Si è dimesso nel ’21, mantenendo varie collaborazioni giornalistiche. Scrittore di gialli e noir, ne ha scritti 15, alcuni tradotti in inglese, francese, romeno. Da un suo saggio, “Manager calibro 9”, è stato tratto il film “Lo spietato”. Scrive anche per il teatro, attualmente è direttore artistico del teatro Gerolamo, storica sala milanese.
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