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“Prima di chiamarci assassine venite in sala operatoria con noi”, parla chi ha deciso di abortire

Denise, Tecla e Alice hanno abortito. Lo hanno fatto, volontariamente, per ragioni diverse ma con lo stesso diritto di scegliere, che tuttavia a molte donne ancora in Italia viene negato. Fanpage.it è stata a casa loro per ascoltare le loro storie, dolorose oppure no, di interruzione di gravidanza.
A cura di Chiara Daffini
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L'aborto resta un diritto parzialmente negato in Italia
L'aborto resta un diritto parzialmente negato in Italia

Sono trascorsi 44 anni dall’approvazione della legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza (Ivg). Ma dal 1978 a oggi questa legge è stata interpretata, più che essere applicata. Lo raccontano, attraverso le loro esperienze, due donne di Como che hanno deciso di abortire. Lo confermano anche i dati del Ministero della Salute (ultima rilevazione, anno 2018), per cui negli ospedali italiani 7 ginecologi e 5 anestesisti su 10 sono obiettori di coscienza. Il 5 per cento delle donne che decidono di interrompere la gravidanza devono spostarsi in un’altra provincia, se non addirittura all’estero.

Denise ha abortito quando aveva 17 anni
Denise ha abortito quando aveva 17 anni

“Se tornassi indietro lo rifarei”

Denise a 17 anni rimane incinta. “Il mio ragazzo di allora di anni ne aveva 19, eravamo piccoli, ma il problema principale – racconta a Fanpage.it la donna, oggi 29enne – era che lui era violento. Un po’ tanto violento. Quando ho saputo della gravidanza ero alla settima settimana, l’ho vissuta quasi come una malattia. Il giorno dopo il test mia madre mi ha portata in un consultorio e da lì sono partite tutte le visite e le analisi, fino al giorno del raschiamento. Hanno deciso i miei genitori, ma se tornassi indietro lo deciderei io e sceglierei ancora di abortire: far nascere quel bambino sarebbe stato un gesto troppo egoistico, l’avrei fatto vivere nella sofferenza”.

Tecla a 33 anni si è sottoposta ad aborto terapeutico
Tecla a 33 anni si è sottoposta ad aborto terapeutico

“Per la società eravamo assassini”

Siamo alla vigilia della pandemia quando Tecla, allora 33enne, scopre di essere incinta: “Non l’avevamo cercato – dice a Fanpage.it -, ma io e il mio compagno eravamo felicissimi. E lo siamo stati fino alla metà di aprile 2020, quando un’ecografia morfologica ha rivelato che il feto era in grave sofferenza, se fosse nato avrebbe avuto pesanti malformazioni”. La coppia prende una decisione sofferta e lo fa in solitudine: “Abbiamo deciso di addossarci noi un dolore grande per non condannare lui, tutta la vita, a una sofferenza ancora più grande. Per la società eravamo assassini, non l’abbiamo detto a nessuno, tutti pensavano che avessi perso il bambino”.

Alice ha abortito a 27 anni, non voleva diventare mamma
Alice ha abortito a 27 anni, non voleva diventare mamma

"Non volevo diventare madre"

Anche Alice scopre di una gravidanza inattesa in pieno Covid. "Avevo 27 anni – racconta a Fanpage.it – e, allora come oggi, non sentivo fosse per me il momento di diventare mamma. Così, quando in bagno ho visto che entrambi i test erano positivi, la prima cosa che ho fatto è stata chiamare la ginecologa e dirle che avrei abortito. Non posso dire che per me sia stata una decisione dolorosa: sapevo che era un mio diritto, anche se ero preoccupata per tutti i pregiudizi e la violenza psicologica a cui sarei andata incontro".

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Il frate in ospedale

E i timori di Alice si avverano. "Visto che eravamo nel periodo più brutto della pandemia – dice la giovane donna -, con me in reparto non era potuto venire nessuno, ma insieme a me c'erano altre donne che dovevano abortire. Eppure a un frate, senza alcun ruolo sanitario, è stato permesso di entrare in reparto e parlare con noi. È stato davvero disturbante". Il fatto che si praticasse l'ivg, poi, non era scritto da nessuna parte, come se fosse un atto criminale,

Un diritto sancito ma non scontato

Torniamo a Tecla. “Ai tempi – ricorda – ero seguita da un ginecologo che mi aveva visitata due settimane prima della morfologica, dicendomi che andava tutto bene. Quando gli ho fatto presente che volevo interrompere la gravidanza mi ha risposto che se volevo potevo andare da un suo amico a Londra”. Tecla e il compagno devono decidere in fretta, perché dopo i 180 giorni non è più possibile praticare in Italia l’aborto terapeutico (cioè per motivi di salute della madre o del nascituro): “A me è andata ancora bene – commenta la donna -, ma so di molte che sono state rimbalzate da una struttura all’altra, con la scusa di un ennesimo esame di accertamento. Finché poi non è diventato troppo tardi”.

“Ringrazio ancora i medici per non avermi giudicata”

Il ricordo di Denise è positivo: “I medici e gli infermieri mi hanno coccolata, non smetterò mai di ringraziarli per avermi messa a mio agio senza farmi sentire sbagliata”. Ma non a tutte è andata così: “Alcune donne con cui ho parlato – racconta Tecla – dopo aver partorito il loro bambino morto hanno chiesto di poterlo vedere e la risposta è stata ‘Ma signora, cosa vuole vedere? È un fetino'”.

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"Perché dico che ho abortito felicemente"

"Ero consapevole che abortire fosse un mio diritto ed ero anche certa di non volere figli – dice Alice a Fanpage.it -, perciò non posso affermare di aver vissuto questa esperienza in maniera dolorosa. Non io, almeno. E penso che il dolore vada vissuto, non imposto. Dire che ho abortito ‘felicemente', cioè in modo relativamente sereno, non vuole sminuire la sofferenza di chi invece ha trascorso giorni e mesi nell'angoscia, ma dare anche questo punto di vista credo sia importante per iniziare a rompere il binomio aborto-senso di colpa, l'atteggiamento da tenere verso tutte le donne che lo vivono è di rispetto, non di giudizio e nemmeno di compassione".

Perché in Italia l’aborto non è ancora un diritto rispettato

“A 44 anni dall’entrata in vigore della legge 194, che ha decriminalizzato e regolamentato il diritto all’aborto, non siamo ancora nella condizione di accedere liberamente all’interruzione volontaria di gravidanza – spiega l’avvocata Giulia Crivellini, tesoriera di Radicali italiani e promotrice della rete Libera di abortire -. Questo per colpa del numero altissimo di obiettori di coscienza, dell’assenza di informazioni chiare e scientificamente corrette da parte delle istituzioni e delle scelte delle amministrazioni anti-abortiste guidate dalla destra. Alcune Giunte regionali – prosegue l’avvocata -, come quelle di Marche e Abruzzo, sfruttano le zone grigie della 194 per impedire nei fatti un aborto civile, rifiutandosi di seguire le nuove linee di indirizzo ministeriali sull’aborto farmacologico e svuotando così di significato il riconoscimento giuridico dei diritti riproduttivi. In queste regioni, alle donne che scelgono di interrompere una gravidanza viene impedito di assumere la pillola abortiva RU486 nei consultori, nelle strutture ambulatoriali o in day hospital, sulla base di motivazioni antiscientifiche, impedendo dunque alle stesse di esercitare il proprio legittimo diritto di scelta riguardo al metodo a cui poter ricorrere per interrompere una gravidanza”.

Giulia Crivellini, avvocata, tesoriera di Radicali italiani, è promotrice della rete Libera di abortire
Giulia Crivellini, avvocata, tesoriera di Radicali italiani, è promotrice della rete Libera di abortire

Le associazioni no-choice

“Si moltiplicano anche i bandi che vogliono favorire le associazioni no-choice all’interno dei consultori – fa notare Crivellini -, come quello avviato dalla Regione Piemonte, che mira ad attivare e finanziare con soldi pubblici convenzioni con organizzazioni che nel proprio statuto riportano ‘la finalità di tutela della vita fin dal concepimento'”.

L’obiezione di coscienza e la geografia italiana

A Matera – spiega l’avvocata – l’unico medico non obiettore di coscienza in Asl è andato in pensione a fine 2020, costringendo le persone a spostarsi fino a Potenza, per poter accedere all’interruzione volontaria di gravidanza. In Molise il 92% dei medici sono obiettori di coscienza. A Bolzano si arriva all’84% mentre in Abruzzo, Puglia, Basilicata e Sicilia si supera l’80%. E questo avviene nonostante l’articolo 9 della legge 194 preveda che enti ospedalieri e case di cura autorizzate siano tenuti in ogni caso ad assicurare l’effettuazione degli interventi di interruzione della gravidanza richiesti”.

Nella “progredita” Lombardia

“In Regione Lombardia – illustra Crivellini – a febbraio dell’anno scorso, era approdata in aula la proposta di legge di iniziativa popolare “Aborto al Sicuro”. La norma, promossa da Radicali Italiani, dall’Associazione Luca Coscioni e da una fitta rete di movimenti e associazioni, prevedeva tra l’altro l’accesso a metodi contraccettivi gratuiti a lunga durata d’azione (confetti sottocute a lento rilascio o spirali): una soluzione che, se fornita contestualmente all’interruzione volontaria di gravidanza, favorirebbe, secondo la letteratura scientifica, l’educazione alla prevenzione. Dopo un surreale e ideologico dibattito, è stata interamente bocciata”. Di più: “Cinque ospedali lombardi – , Gallarate, Iseo, Oglio Po, Sondalo e Chiavenna – , hanno il 100% di obiettori. In 11 strutture sono oltre l’80%, solo in 8 sono sotto il 50%”.

Denise oggi aiuta le mamme

Oggi Denise è mamma di una bimba di tre anni. Felice per questa seconda possibilità, non dimentica però il trauma subito. “Convivo da 12 anni con ansia e attacchi di panico – si confida Denise -, principalmente perché per tutto questo tempo non ho parlato con nessuno dell’aborto, mi vergognavo e mi veniva detto di evitare, forse per proteggermi. Ma così non ho elaborato quello che è un lutto a tutti gli effetti”. Questa sofferenza si è tradotta anche in aiuto: “Dopo la nascita della mia bambina ho deciso di diventare doula, una figura presente soprattutto all’estero. Assisto le mamme, in qualsiasi condizione si trovino, prima, durante e dopo il parto”.

Tecla risponde ai politici

“Alle donne che stanno affrontando questa scelta dolorosa dico che non sono sole, c’è un esercito, purtroppo invisibile, di donne come noi. Parlate con chi ha avuto la vostra stessa esperienza”. E a quella politica che vorrebbe portare indietro, anziché avanti, l’iter di piena applicazione della legge 194? “A loro direi soltanto di venire in sala parto con chi è costretta a partorire suo figlio morto. E vedere come sta, prima di parlare di ciò che non sa”.

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