Strage di Piazza della Loggia, la testimonianza 48 anni dopo: “Così la bomba uccise mia moglie”
Manlio Milani il 28 maggio 1974 perde sua moglie Livia Bottardi, insegnante di 32 anni: “Arrivati in piazza – racconta a Fanpage.it – individuammo i nostri amici con cui la sera prima a cena ci eravamo accordati per partecipare insieme alla manifestazione. Si trovavano proprio accanto a quel cestino dove di lì a poco sarebbe scoppiata la bomba. Nel frattempo però un’altra persona mi aveva chiesto un’informazione e allora io e Livia ci eravamo divisi: mentre io rispondevo, lei raggiungeva gli altri. Poco dopo, ero a tre metri di distanza, andai verso di loro: guardavo mia moglie e la salutavo con il capo. Poi, d’improvviso, l’esplosione”.
“Amici, compagni, state fermi!”
Quella mattina piovosa di fine maggio in piazza Loggia sono riuniti operai, studenti, cittadini, coordinati dalle sigle sindacali per dire no alla violenza. Dal palco parlano i sindacalisti Franco Castrezzati (Cisl) e Giorgio Leali (Cgil). Il terrorismo nero, la rinascita di movimenti fascisti e la necessità di salvaguardare la democrazia e i principi della resistenza sono al centro dei discorsi che si spandono in tutta la piazza, dove si trova anche il palazzo del Comune. Fino al boato, alle 10.12. Leali prende il microfono di mano a Castrezzati e cerca di placare la folla: “Amici, compagni, state fermi, state fermi! Venite vicino al palco”. L’ordigno, circa un chilogrammo di materiale esplosivo, era stato posizionato in un cestino porta rifiuti sul lato est della piazza. “Non capiva più niente nessuno – spiega Giorgio Leali a Fanpage.it -, c’erano sangue e pezzi di cadaveri ovunque”.
Luigi e l’impermeabile beige
“Mi ricordo l’allora assessore all’Urbanistica Luigi Bazoli – dice Marco Fenaroli, attuale assessore ai Servizi sociali del Comune di Brescia -, veniva verso di me, che ai tempi ero consigliere di quartiere, e mi invitava a mantenere la calma. Aveva il suo solito impermeabile beige e stava andando a una riunione dei partiti. Solo lì avrebbe scoperto che tra le otto vittime c’era anche sua moglie”.
Quasi tutti i morti hanno meno di 60 anni
Durante la strage muoiono Giulietta Banzi Bazoli, 34 anni, insegnante di francese; Livia Bottardi in Milani, 32 anni, insegnante di lettere alle medie; Alberto Trebeschi, 37 anni, insegnante di fisica; Clementina Calzari Trebeschi, 31 anni, insegnante; Euplo Natali, 69 anni, pensionato e ex partigiano; Luigi Pinto, 25 anni, insegnante; Bartolomeo Talenti, 56 anni, operaio e Vittorio Zambarda, 60 anni operaio. Altre 102 rimangono ferite.
Il primo pensiero, il senso di colpa
“Il primo pensiero – ricorda Milani – è stato: speriamo che lei stia bene, se agli altri è successo qualcosa, mi spiace per loro. Ma gli altri erano miei amici, erano lì per i miei stessi ideali. Per molto tempo mi sono sentito in colpa per ciò che ho provato. Poi all’ospedale mi hanno detto che non c’era più niente da fare e dall’obitorio, nel pomeriggio, sono tornato in piazza, dove sono stato accolto da centinaia di persone che mi manifestavano la loro vicinanza. Quella piazza mi ha ricordato che il mio non era un fatto privato: quella bomba voleva colpire tutti quelli che si erano riuniti per dire no alla violenza attraverso la partecipazione democratica”.
I pregressi: da piazza Fontana alla morte di Silvio Ferrari
“La strage di piazza Loggia – spiega Milani, che ha fondato e presiede l’associazione Casa della Memoria – segna la fine del quinquennio del terrorismo nero, iniziato con la bomba in piazza Fontana, a Milano, e seguito dal terrorismo rosso. Il primo colpiva in maniera indistinta nel gruppo, il secondo si focalizzava su obiettivi precisi, ma il fine era lo stesso: sovvertire l’ordine pubblico, impedire il ‘compromesso storico’, cioè il dialogo tra partito comunista e democrazia cristiana”. Pochi giorni prima della strage c’è il referendum sul divorzio, che segna un passo decisivo per la democrazia, da lì una nuova escalation di violenza: solo a Brescia, l’attacco alla sede dell’Anpi e la vicenda di Silvio Ferrari, che nella notte del 19 maggio muore trasportando esplosivo per un attentato su disegno dell’allora gruppo neofascista Ordine nuovo. Da qui la necessità, avvertita dalle fronde democratiche, antifasciste e liberali, di riunirsi in piazza per protestare.
Niente polizia: “La piazza la difendiamo noi”
Da subito dopo l’attentato fino ai funerali delle otto vittime, a cui partecipano le più alte cariche dello Stato, piazza Loggia viene presidiata autonomamente da gruppi di cittadini coordinati dai sindacati: le forze dell’ordine non possono entrare. “Poco dopo lo scoppio della bomba – ricorda Leali – in piazza sono arrivate le camionette della polizia. Io e alcuni operai siamo riusciti a bloccarle, ma anche loro, quando hanno capito che cosa era successo, hanno avuto l’ordine di ritirarsi”. Il pregiudizio verso gli agenti è legato alla scia di sangue e terrore che da cinque anni macchia l’Italia: “Non ci sentivamo protetti dalla polizia rispetto alla violenza neofascista”, spiega Fenaroli. “Il messaggio – aggiunge Milani – era chiaro: questa piazza la autogestiamo noi, perché i cittadini e le istituzioni da proteggere li rappresentiamo noi”.
I depistaggi
Passano 43 anni prima di avere i nomi dei colpevoli. “Questo – dice Fenaroli – anche grazie a numerose operazioni di depistaggio”. A cominciare dalla mattina stessa dell’attentato: alle 12 viene dato l’ordine di lavare la piazza dal sangue e dai pezzi di corpi: “Fu il questore a dare indicazione ai vigili del fuoco – continua l’assessore bresciano –. In quel momento fu letto come un gesto di rispetto e di pulizia, solo in seguito si appurò che l’operazione aveva cancellato diverse prove potenzialmente decisive”. Anche la registrazione audio del comizio, curata da Radio Brixia, sparisce misteriosamente: “Quando andai a prendere il dischetto – racconta Leali – la signora di Radio Brixia mi disse che erano già stati a ritirarlo e me ne fece in seguito una copia. Non si è mai saputo chi fosse stato”.
Il processo e l’ultimo colpo di scena
Solo dal 21 giugno 2017 la strage ha due responsabili: Carlo Maria Maggi, fondatore di Ordine nuovo e capo della cellula del Triveneto del partito di ispirazione fascista, e Maurizio Tramonte, l’informatore dei servizi segreti. Sembra la fine di un incubo durato quasi mezzo secolo, ma non lo è: a maggio del 2022 la Corte d’Appello accoglie l’istanza di revisione dell’ergastolo inflitto in via definitiva a Tramonte e a Maggi, nel frattempo morto ai domiciliari. Con oltre 50 pagine e duemila allegati, l’atto punta a smontare alcuni passaggi cardine della sentenza della Corte d’appello bis di Milano e a ottenere l’inutilizzabilità delle dichiarazioni confessorie di Tramonte – rese quando non era ancora indagato e ritrattate in sede processuale – e una perizia su una foto di giornale che per l’accusa lo ritrarrebbe all’ombra della Loggia subito dopo l’esplosione. Una presenza da lui negata con forza.