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Perché Milano fa sentire così soli, soprattutto i giovani? La risposta di un sociologo urbano

In una città come Milano ci si sente soli e si fa fatica a relazionarsi con l’altro. Il sociologo urbano Giampaolo Nuvolati spiega quali sono i motivi di questa solitudine, tra biografie individuali, lavoro, app di incontri ed era post Covid.
Intervista a Giampaolo Nuvolati
Docente di sociologia urbana all'Università Bicocca di Milano e sociologo dell'ambiente e del territorio.
A cura di Matilde Peretto
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Milano ha più di un milione di abitanti, eppure è una città che fa sentire tremendamente soli. Conoscere persone e instaurare relazioni durature è difficile. Il sociologo urbano, docente all'Università Bicocca, Giampaolo Nuvolati, intervistato da Fanpage.it, ha cercato di dare delle spiegazioni a questo fenomeno che sembra quasi impossibile in una città così affollata, ma che in realtà è tipico delle grandi metropoli.

Dottor Nuvolati, perché una grande città come Milano rende così soli?

I motivi sono diversi, ma il principale è che siamo inseriti nella dimensione della tarda post modernità, ovvero un periodo storico che si basa su alcuni aspetti. Il primo è che le biografie delle persone sono molto individuali: ognuno ha la propria storia. In secondo luogo, non esiste più il senso di appartenenza. Un tempo ci si sentiva parte di un gruppo grazie all’ideologia politica.

Per esempio, far parte di un partito legava agli altri membri creando un senso di appartenenza basato sull’ideologia. Poi c’erano le comunità di territorio: nei paesi di provincia si crea un senso di appartenenza forte perché le persone si conoscono e spesso sono anche legate da vincoli di parentela.

Ecco queste due dimensioni, l’appartenenza ideologica e quella territoriale, che sono circostanze di aggregazione, vengono meno nella grande città.

Cosa succede nelle grandi città?

Quando si entra nelle grandi città, si scommette molto sulla propria vita: si viene a Milano per crearsi una carriera, per fare successo, quindi si scommette sulla propria vita e si alza il livello di rischio. È un mettersi in gioco rinunciando al tessuto sociale o capitale sociale che è presente nei paesi più piccoli.

L’avvento di Internet, invece, può aver creato ancora più solitudine?

Sicuramente da quando è nato Internet manca la prossimità con l’altro: la comunicazione a distanza permette di creare dei legami che, però, sono molto deboli. Sono nate nuove comunità che viaggiano online, ma che influiscono nel limitare o rendere diverse le relazioni.

Come considera le app di incontri?

Sono delle occasioni artificiali. Prima le modalità di partecipazione erano legate da biografie individuali che si sentivano parte di qualcosa (che sia il partito o il piccolo paese). Con le app di incontro o con i social, si creano sì delle comunità, ma sono artificiali. Paradossalmente ho più amici sui social, ma non ho la dimensione di comunità forte. Voglio dire, però, che oggi le comunità sono anche ibride, ovvero c’è interazione tra social e realtà. Ci si scrive su Instagram e ci si vede anche di persona.

E poi ci sono delle volte in cui si fa parte di un gruppo che ha senso di esistere finché c’è un problema. Facciamo un esempio: in un quartiere i residenti non vogliano che venga costruito un parcheggio che va a cementificare un’area verde. Allora si crea un gruppo, si partecipa finché c’è il problema. Poi ognuno riprendere le sue storie individuali.

La solitudine sembra quasi una condanna…

La solitudine è difficile da accettare per lungo tempo. Per questo anche nelle città si creano delle congregazioni a livello di quartiere, per esempio. Ma hanno il connotato che non sono per sempre perché alla fine tutti riprendono la propria strada individualizzata.

Anche perché le persone che vivono a Milano ci mettono un po' di tempo a inserirsi nel quartiere in cui vivono.

Milano è una città di passaggio. È molto difficile mettere su famiglia perché è un continuo entrare e uscire. Ogni volta incontro persone, certo, ma le incontro rispetto alle mie aspettative, alla mia carriera. Sono io il centro del mondo, soprattutto in una città come Milano in cui io sono venuto per "giocarmi la partita".

Cosa si potrebbe fare per riuscire a instaurare più relazioni?

È un percorso difficile e complicato, visto il trend. Basta pensare che durante il Covid si erano create delle relazioni che sembravano dover durare per sempre: la solidarietà, la reciprocità, gli aperitivi sui balconi. Invece, tutto è tornato normale.

L’ho sempre sostenuto: Milano si è dimenticata di quello che è successo e si è messa a galoppare ancora più veloce. Io dico sempre che Milano era come un atleta tenuto da un elastico: scalpitava trattenuta dall’elastico del Covid, quando si è rotto, è ripartita al galoppo.

Milano è la città emblematica di questa solitudine?

No, è una cifra che riguarda tutte le città. In realtà, tutto il mondo si sta urbanizzando e anche la provincia sta diventando così. Sta cambiando anche lì perché la società che sta cambiando. Le persone sono molto concentrate su loro stesse, scommettono di più su quello che vogliono fare: cambiare lavoro, cambiare città, cambiare famiglia.

Le nostre esistenze sono talmente frammentate che noi stessi facciamo fatica a tenerle insieme. E questa è una cifra della società contemporanea. Chiaro, Milano è una città frenetica e in continua trasformazione. Diventa difficile mantenere relazioni robuste. Ciò non significa che siamo completamente soli, però non è così facile mantenere i rapporti.

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