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Perché lo striscione contro “Beretta l’infame” è la prova della mentalità criminale della curva dell’Inter

Lo striscione della Curva dell’Inter contro il “pentimento” Andrea Beretta non fa altro che confermare ancora una volta di non voler chiudere con quella mentalità: quella di chi giudica un traditore un “infame”, ma che allo stesso tempo si autoaccusa di nascondere qualcosa.
A cura di Giorgia Venturini
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"La tua infamità non appartiene alla nostra mentalità". Con queste parole la Curva interista ha attaccato la decisione di Andrea Beretta di collaborare con la giustizia. In altre parole, se uno di loro si "pente" è un infame. Un copione che l'Italia ha già visto e rivisto quando a pentirsi è un appartenente a un'organizzazione mafiosa. Ecco quindi che sorgono due domande: di cosa ha paura la Curva? E cosa può veramente rivelare Beretta tanto da far tremare parte della tifoseria?

Andrea Beretta si trova in carcere con l'accusa di aver ucciso Antonio Bellocco, rampollo della cosca di ‘ndrangheta di Rosarno davanti a una palestra di Cernusco sul Naviglio lo scorso 4 settembre. Il suo arresto per omicidio è arrivato poche settimane prima che la Direzione Distrettuale Antimafia di Milano ha messo sotto indagine alcuni ultras di Milan e Inter: le varie intercettazioni hanno rivelato gli affari delle Curve e i suoi protagonisti. Subito dopo l'inchiesta la Curva interista ha affermato di essere pronta ad andare avanti, a rivelare la sua vera natura lontana da qualsiasi logica criminale.

Eppure neanche due mesi dopo rieccola la mentalità che avevamo già trovato nelle inchieste della Procura. Con questo striscione la Curva non fa altro che confermare ancora una volta di non voler chiudere con quella mentalità: quella di chi giudica un traditore un "infame", ma che allo stesso tempo si autoaccusa di nascondere qualcosa. Quello striscione infatti non è stato mostrato con l'obiettivo di dissociarsi dagli affari criminali e violenti (quali sono li confermerà un processo) di cui tra gli altri è accusato Andrea Beretta, bensì di attaccare la sua collaborazione con la giustizia. Esattamente in vero stile mafioso: nella criminalità organizzata infatti quando un appartenente al clan inizia a collaborare viene infamato, o meglio "tragediato". Ovvero gli altri membri cercano di screditarlo, o infamarlo appunto.

Ma il risultato è l'opposto. In questo caso gli ultras non si accorgono che mostrare un cartello simile non fa altro che dare forza a quelli che potranno essere i racconti di Beretta. Per evitarlo c'è un'unica strada: abbandonare realmente la mentalità criminale. Cosa Beretta dirà lo sapranno lui e i procuratori. I punti irrisolti sono ancora tanti, ma di certo le parole dell'ex capo ultras sono temute anche da chi (forse ancora) non è finito in nessuna inchiesta della Procura.

Resta il fatto che per Beretta la strada della collaborazione era quella più sicura: dopo l'omicidio Bellocco, l'ex capo della Curva dell'Inter rischia una vendetta della ‘ndrangheta. E chi la rischia di più non è sicuramente lui, in un carcere ora del centro Italia, ma la sua famiglia. Per fare in modo che i figli entrino in un sistema di protezione, Beretta deve diventare un collaboratore di giustizia. E così ha fatto, ma per il suo mondo ultras resta un "infame". Segno che questo cambiamento tarda ad arrivare.

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Sono giornalista professionista dal 2020, ma faccio questo lavoro da molto più tempo. Nel settembre del 2020 sono arrivata a Fanpage.it inserendomi nella squadra della cronaca di Milano. Da anni mi occupo di criminalità organizzata soprattutto in Lombardia e di problemi ambientali: due tematiche che spesso si intrecciano tra di loro. Da un anno curo il progetto www.stampoantimafioso.it, un giornale online che si occupa di mafia e antimafia e che seguo insieme ad altri giornalisti e ricercatori che come me si sono laureati in Sociologia della criminalità organizzata.
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