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Perché le parole dell’accusa hanno mostrato il vero volto di Alessandro Impagnatiello

La requisitoria delle procuratrici, durante l’udienza nei confronti di Alessandro Impagnatiello accusato del femminicidio di Giulia Tramontano, hanno fatto sì che il 31enne mostrasse il suo vero volto: quello dell’assassino spocchioso e assurdo, molto autocentrato e zero empatico.
A cura di Piero Colaprico
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Smorfie. Dinieghi. Sopracciglia alzate. Schiacciato da quella che il pubblico ministero chiama "prova diretta"; decifrato in ogni passaggio della sua ferocia omicida; svelato in moltissime se non proprio tutte le sue bugie, comprese quelle a sua madre e a suo fratello, Alessandro Impagnatiello, seduto nella gabbia degli imputati nell’udienza con la richiesta dell’ergastolo, ha perso la sua aria dimessa e s’è messo a sbuffare.

Non si è più mostrato, come in tutte le udienze precedenti, come un poveraccio pallido barbuto e prono, che sussulta come se singhiozzasse; che, impacciato e intimidito dagli scranni, strabuzza gli occhi per comprendere i paroloni della giustizia e della medicina. Non esiste più,
all’improvviso, l’Impagnatiello che, ora dopo ora di dibattimento, si torceva le mani come se avesse finalmente incontrato la verità: "Grazie a voi, inizio a capirmi meglio".

Messo di fronte al suo (parola del pubblico ministero) "viaggio nell’orrore", in questo 11 novembre l’imputato è tornato a mostrarsi in pubblico per quello che forse è quando è senza maschera. Nella gabbia s’è rivisto, infatti, lo stesso Impagnatiello che, quando i carabinieri gli perquisirono lo zainetto, nei giorni successivi all’omicidio di Giulia Tramontato e del piccolo Thiago, e trovarono il topicida, reagì malamente.

Disse che gli serviva per "le zoccole grosse così" che sfrecciano di notte in zona Milano centro quando con gli amici a fine turno di cocktail "ci
facciamo le canne". Come in un macabro gioco dell’oca, Impagnatiello è dunque tornato alla casella di partenza: quella dell’assassino spocchioso e assurdo, molto autocentrato e zero empatico.

Un killer degli indifesi che, entrato nel carcere di San Vittore, diceva alla polizia penitenziaria: "E pensare che ieri stavo in Montenapoleone". Come se di quella via fosse stato il re, e non uno dei tanti che sgobba, suda e magari s’inchina a beneficio dei turisti e di chi ha in tasca danée a sufficienza per pagare bottiglie da 200 euro.

Alessandro Impagnatiello ha dentro di sé – questa la diagnosi giuridico-medica – la cosiddetta "triade oscura". Psicopatologico, narcisistico e machiavellico: nel senso più moderno del termine, e cioè manipolatore. Purtroppo persone così – non come Machiavelli, ma come Impagnatiello – se ne incontrano nella vita di tutti i giorni. E non tutte le persone riescono a individuare le tracce del "narcisismo mortale" che contribuisce a causare così tanti femminicidi.

Lui c’è riuscito, per un po’. Ha imbrogliato Giulia, la fidanzata, convivente e madre del futuro bambino. Ha imbrogliato A., la collega con la quale aveva intrecciato una relazione parallela. Nel momenti di esaltazione passava, parole sue, “da vanto a vanto”, e cioè aveva (credeva di avere) la donna perfetta a casa e la donna bramata da tanti fuori casa. E quando le due donne, che lui chiamava “pedine” si sono incontrate, e quindi sono sfuggite ai suoi inganni da mitomane degli scacchisti, ecco il crollo del “vanto”.

Anzi, il disonore. L’abisso. Lo smarrimento. Era lui a ingannarle, sino ad allora. E s’è sentito perdente. E quella ferita creata dalle donne, sino ad allora "cosa sua", l’ha spinto a modificare strategia: Impagnatiello, che già da tempo secondo l’inchiesta e l’accusa aveva in mente di
ammazzare Giulia, e magari allestire un suicidio fasullo con il topicida, l’ha aspettata a casa e l’ha aggredita alle spalle, infierendo con le 37 coltellate di rabbia fredda.

Strategico nel male, tanto da provare a costruirsi alibi, con altre bugie costruite però sulla sabbia da chi, come lui, non ha la minima dimestichezza con le scienze forensi e con i progressi dei detective. Sentirselo sbattere in faccia in aula, specie dall’avvocato di parte civile, che più volte l’ha indicato con la mano destra, che più volte l’ha guardato come si guardano le persone con le quali non si vorrebbe avere a che fare, ha tolto a Impagnatiello ogni scudo.

Non potendo vociare né ribellarsi, Impagnatiello – in attesa della sentenza del 25 novembre – ha guardato i togati dell’accusa e della parte
civile con lo sguardo che ogni sconfitto ha dai tempi dell’età della pietra. Occhi come coltelli. Ha perso il suo travestimento da ragazzo modello, lasciando emergere che "dentro" l’inferno l’ha avuto, l’aveva e chissà, forse ce l’ha ancora.

Se perciò le sue smorfie da bullo sembrano sballate, lo sono ancora di più confrontandole con un’altra immagine di questa udienza: la mamma di Giulia che abbraccia la magistrata, dopo la possente requisitoria, e le dà una carezza sulla guancia. La carezza che avrebbe voluto dare a Giulia, che non c’è più. Al nipotino Thiago, che non ha mai visto la luce. La carezza per chi, in qualche modo, interpreta il bisogno di giustizia delle vittime.

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Piero Colaprico. Liceo al collegio Morosini, laurea in legge a Milano, assunto nel 1985 da Repubblica, nominato nell’89 inviato speciale, nel 2006 responsabile del settore nera e giudiziaria, nel 2017 capo della redazione. Si è dimesso nel ’21, mantenendo varie collaborazioni giornalistiche. Scrittore di gialli e noir, ne ha scritti 15, alcuni tradotti in inglese, francese, romeno. Da un suo saggio, “Manager calibro 9”, è stato tratto il film “Lo spietato”. Scrive anche per il teatro, attualmente è direttore artistico del teatro Gerolamo, storica sala milanese.
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