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Perché la solitudine di Alessia Pifferi ha condannato a morte la piccola Diana

Siamo tutti responsabili della morte di Diana? I servizi territoriali in Italia sono efficaci e funzionanti. Ma Alessia Pifferi non ha chiesto aiuto e non le è stato dato, perché nessuno si era accorto di lei.
A cura di Anna Vagli
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Alessia e Diana Pifferi
Alessia e Diana Pifferi
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Diana Pifferi era una “figlia della colpa”. Con lei Alessia aveva una relazione ambivalente e problematica. Aveva scelto di relegarla alla periferia della propria esistenza, l'aveva emarginata e quasi nascosta. L'aveva abbandonata a casa da sola più volte in passato. Volte che, ad oggi, hanno il sapore di prove generali di una tragedia annunciata. Ieri, nel giorno dell’ultimo saluto, c’è stato spazio non solo per le lacrime, ma anche per una collettiva presa di coscienza.

Più che un senso di colpa è un senso di responsabilità che chiama in causa tutti”. Queste le parole del sindaco Giuseppe Sala presente al funerale. Parole che, ad oggi, non possono che spingere a riflettere su che cosa poteva realmente essere fatto per impedire il tragico epilogo.

La morte di Diana si poteva evitare?

Alessia Pifferi non ha realmente mostrato prima segnali di profondo disagio? Diana è mai stata portata al nido? Chi era il pediatra della piccola? Possibile che sia morta nell’indifferenza? Tutti, almeno una volta negli ultimi giorni, ce lo siamo chiesto.

Certo, mettere al mondo un figlio non significa essere pronti ad amarlo. Ma altra certezza è che il nostro Paese è dotato di strutture e servizi territoriali funzionanti intorno alla maternità e all’infanzia. Di conseguenza, quando la gravidanza di una donna viene seguita passo dopo passo in un consultorio le situazioni di disagio emergono sempre e sono arginate. La morte della piccola Diana ci ricorda però che determinate realtà arrivano agli onori della cronaca soltanto quando sono diventate sanguinarie. In questo senso, viene tralasciato un dettaglio non trascurabile. Difatti, dietro ci sono troppo spesso situazioni di grave disagio sociale, isolamento ed incapacità di richiedere aiuto. Per questo non bisogna fermarsi di fronte alla dicotomia tra presenza e assenza di problematiche psicologiche.

Alessia Pifferi era una donna totalmente affetta da un’impermeabilità emotiva: nessuno ha capito e di conseguenza nessuno ha chiesto aiuto per lei. Una mamma di fatto, ma non nei fatti. In scenari come questi, pertanto, se non si esterna la necessità di supporto, anche emotivo, è quasi impossibile riceverlo. Anche in forza del radicato costrutto sociale che se sei mamma devi essere a tutti i costi felice. E questo vale per ogni estrazione sociale. Per dirne una, non molto tempo fa, è esplosa la polemica sui social contro l’influencer Paola Turani, rea di aver condiviso con i suoi follower la stanchezza e le difficoltà che l’affliggono da quando è diventata mamma. Bella, famosa e da non molto tempo anche mamma. Per il sentire comune queste sono caratteristiche che mal si sposano con le difficoltà quotidiane connesse alla crescita di un figlio.

Alessia Pifferi viveva in una sconfinata solitudine. Il fatto di negare, come quest'ultima ha fatto, la gravidanza fino allo scadere del nono mese viene considerato dai consultori come un elevato fattore di rischio. Dunque, questo è un dato che conferma come Alessia non sia stata seguita da alcun servizio territoriale. Perché altrimenti la sua gravidanza sarebbe stata presa in carico e avrebbe fatto scattare un alert. Quindi, Diana poteva essere salvata. Alessia Pifferi, però, non ha chiesto aiuto e non lo ha ricevuto. Forse, se avesse avuto una persona amica, Diana non sarebbe morta. Oggi sappiamo che intorno a lei non c’era nessuno.

Perché Alessia Pifferi voleva partecipare al funerale della figlia?

Ha fatto molto discutere la richiesta di Alessia di poter partecipare al funerale della figlia. Dietro quella volontà, però, non si è celato alcun tipo di pentimento né spinta interiore dovuta al rimorso. Al contrario, è stata frutto dello spirito conservativo di Alessia. Difatti, contrariamente a quanto si potrebbe o si vorrebbe pensare, in un caso simile essere presente avrebbe consentito alla donna di instaurare un distacco emotivo rispetto all’accaduto. Un distacco fondamentale per negare prima di tutto a sé stessa ciò che ha commesso. Lo comprenderete, quindi, che la sua presenza non sarebbe stata per Diana. Ma per preservare la propria integrità psichica. In attuazione di quello che in gergo tecnico si definisce meccanismo di difesa primitivo. Un meccanismo che consente ai soggetti di non riconoscere una volontà, un desiderio e, nei casi come questo, anche l’agito stesso. Alessia Pifferi continua verosimilmente ad essere lucida.

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Dottoressa Anna Vagli, giurista, criminologa forense, giornalista- pubblicista, esperta in psicologia investigativa, sopralluogo tecnico sulla scena del crimine e criminal profiling. Certificata come esperta in neuroscienze applicate presso l’Harvard University. Direttore scientifico master in criminologia in partnership con Studio Cataldi e Formazione Giuridica
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