Perché la sentenza sull’omicidio di Carol Maltesi è sessista già nel linguaggio, secondo Stefano Bartezzaghi
Un anno e mezzo fa, la 27enne Carol Maltesi è stata uccisa a Rescaldina (Milano) dal suo ex fidanzato e vicino di casa Davide Fontana. L'omicidio è avvenuto a fine gennaio, ma il corpo è stato ritrovato due mesi dopo: era stato smembrato in quindici pezzi e mostrava segni evidenti di un tentativo di dargli fuoco. A giugno il suo assassino, reo confesso, ha ricevuto una condanna a trent'anni di carcere.
Alcuni giorni fa sono state rese pubbliche le motivazioni della sentenza che non hanno riconosciuto la pena dell'ergastolo richiesta dalla Procura di Busto Arsizio. Le parole utilizzate dai giudici della Corte d'Assise hanno sollevato diverse polemiche.
A scatenare le critiche sono stati termini come "disinibita" o frasi in cui si sostiene che l'autore dell'omicidio fosse "innamorato". Anche il linguaggio utilizzato nella sentenza sembra quindi lasciar trapelare una certa visione del mondo dei giudici.
"Non mi sento in condizioni di giudicare, ma certo la sentenza tradisce una visione dei rapporti tra uomini e donne che è arretrata persino rispetto all'attuale ordinamento giuridico italiano, che proprio avanzato non è", spiega a Fanpage.it il semiologo Stefano Bartezzaghi a cui abbiamo chiesto di commentare i termini utilizzati nelle motivazioni.
In un passaggio della sentenza, Carol Maltesi è descritta come una ragazza “disinibita”. Secondo lei è un termine appropriato in un atto processuale?
Pensiamo a un processo contro una ragazza che ha dato due schiaffi a un ragazzo. Per discolpare la ragazza avrebbe senso affermare che il ragazzo fosse "disinibito" ? Si vede allora che la mancanza di inibizioni è considerata un pregio per un ragazzo e un difetto per una ragazza e quindi viene in mente quel monologo che Paola Cortellesi, bontà sua, ha tratto da un mio libro.
Un ragazzo disinibito è un simpatico guascone; una ragazza disinibita è, diciamo così, una che può cacciarsi nei guai. Si tratta di una visione veramente arcaica delle differenze di genere.
Si rimarca spesso che Fontana fosse “innamorato" e che fosse stato “usato dalla vittima": utilizzare questi termini non sembra voler giustificare un’azione atroce?
Distinguerei il comprendere dal giustificare: in uno studio di psicologia criminale si può, credo, inquadrare un delitto in una perdita di controllo sugli impulsi (cioè in una disinibizione!); ma in una sentenza data nel nome del popolo italiano, secondo giustizia, non si tratta di elementi pertinenti. Almeno da quando l'ordinamento italiano ha cancellato l'obbrobrio del "delitto d'onore".
Potrebbe analizzarci questa frase tratta dalla sentenza: “Dal punto di vista del Fontana, l’omicidio era un modo – certo non condivisibile e sproporzionato secondo il comune modo di sentire – per venire fuori da quella condizione di incertezza e sofferenza non più sopportabile, innescata dalla decisione della stimolante donna amata di allontanarsi da lui”.
La parola che, se soltanto si trattasse non di una tragedia ma di una farsa, qui farebbe ridere è "sproporzionato". L'omicidio – e io direi meglio il femminicidio – non è un atto "un po' esagerato": è un delitto che può essere attenuato solo dalla legittima difesa o dalla protezione di qualcuno di più debole. E non "secondo il comune modo di sentire": secondo il codice penale.
Anche "stimolante donna" non sarebbe male, come gag (purtroppo nell'ambito nerissimo delle "gag tragiche"): riporta l'origine del delitto a un'azione precedente (uno "stimolo"), di cui il delitto sarebbe la reazione provocata. Dobbiamo chiederci quante volte cerchiamo di giustificare atti magari meno gravi, quante volte erodiamo o eludiamo il principio di responsabilità prendendo le spiegazioni per giustificazioni e almeno parziali attenuazioni.
Comprendere e spiegare è sempre necessario; lo è anche punire un uomo che ha ammazzato una donna perché questa lo aveva lasciato, uomo la cui responsabilità non è attenuata di un grammo dalla sua condizione (di assai dubbia definizione) di "innamoratissimo".
Sulla base delle espressioni utilizzate nella sentenza, è possibile che i giudici abbiano dato troppo spazio a un’interpretazione personale di una relazione e delle scelte professionali della vittima invece che alle modalità del delitto?
Non mi sento in condizioni di giudicare, ma certo la sentenza tradisce una visione dei rapporti tra uomini e donne che è arretrata persino rispetto all'attuale ordinamento giuridico italiano, che proprio avanzato non è. Io temo che nella cultura della società italiana sia appunto in atto un arretramento e che alcuni avamposti, alcuni paletti che si erano piantati, alcuni territori che erano stati conquistati a una visione meno sessista e maschile siano in pericolo.
Temo cioè che un po' di tempo fa emettere questa sentenza sarebbe stato più difficile.
In un’intervista al quotidiano Il Corriere della Sera, il giudice ha giustificato la parola “disinibita” affermando che la sentenza sarebbe stata simile anche se fosse stata una suora. Come giudica la similitudine tra una donna che intraprende un percorso religioso e una che non lo intraprende.
Ai miei occhi questo è un esempio del tutto impertinente. E in entrambi i significati della parola.