Perché i Ris avrebbero commesso due errori nella indagini sull’omicidio di Gianna Del Gaudio
Antonio Tizzani è stato assolto dall'accusa di omicidio nei confronti della moglie, Gianna Del Gaudio. La donna, il 29 agosto 2016, era stata trovata morta nella cucina della loro villetta con un profondo taglio alla gola causato da un taglierino. Quella notte era stato proprio il marito a chiamare i soccorsi.
Per l'accusa, però Tizzani aveva colpito la moglie al culmine di una lite che era inserita in un quadro di maltrattamenti.
Il 6 ottobre, in una siepe, era stato trovato un sacchetto dove all'interno c'erano l'arma del delitto e un paio di guanti. Su quei reperti erano state eseguite le analisi da parte del Reparto investigazioni scientifiche (Ris) dell'Arma dei carabinieri.
E proprio alcune analisi svolte dai Ris, sono state contestate dai giudici di primo e secondo grado. Uno degli errori riguarda il prelievo del Dna sull'arma del delitto avvenuto senza avvisare il consulente della difesa.
Il mancato avviso
L'11 ottobre 2016 i Carabinieri del Ris, avvisando sia le parti che alla presenza del consulente della difesa, avevano eseguito due prelievi: da questi non era stata trovata alcuna traccia genetica di Tizzani. Il 9 novembre i militari, senza avvisare il consulente della difesa, "eseguivano ulteriori 6 prelievi" che, come spiegato dai giudici di secondo grado, "ad eccezione dell’ultimo, davano nuovamente esito negativo".
Il prelievo sarebbe stato eseguito su una piccola porzione della lama, nascosta dal manico, dove non sembrava esserci traccia del sangue della vittima: qui è stato trovato un "esiguo quantitativo di materiale biologico " che apparteneva al marito della vittima.
Sia i giudici di primo che di secondo grado hanno sostenuto che il secondo prelievo sia avvenuto in violazione dell’articolo 360 del codice di procedura penale che prevede che "le parti siano informate mediante avviso formale dell’inizio delle operazioni, cosi da garantire l’instaurazione del regolare contraddittorio". Questo significa che i Ris non avevano avvisato la difesa.
Il rischio contaminazione
Il secondo errore riguarda il rischio contaminazione. Come spiegato dai giudici, questa violazione dei protocolli "sostanzialmente riconosciuta anche dagli stessi operanti del Ris, ha comportato chiaramente il rischio che il Dna del Tizzani potesse trasferirsi sul reperto per contaminazione avvenuta in laboratorio".
Al di là della nullità dell'accertamento, per i giudici "a fronte delle numerose risultanze probatorie che orientano per confermare l'assoluzione dell’imputato, tale dato genetico, per le gravi criticità che hanno accompagnato il giudizio sulla genuinità e attendibilità di esso, non sarebbe comunque in grado di mettere in crisi la mole di elementi che nel complesso contrastano, oltre ogni ragionevole dubbio, l'ipotesi che Tizzani Antonio abbia commesso l'omicidio con dolo d'impeto o con premeditazione".
La dinamica
È fondamentale analizzare i motivi che hanno portato i giudici di primo e secondo grado ad assolvere Tizzani. Per entrambi i collegi, la donna – come confermato dai consulenti tecnici – sarebbe stata attaccata alle spalle mentre lavava i piatti: sul corpo non sono state trovate lesioni di una colluttazione o di una reazione di difesa.
Chi aveva ucciso la professoressa voleva provocarle una morte rapida e senza darle possibilità di reagire: “Un gesto che faceva pensare ad un lucido e determinato assassino, piuttosto che a un marito sconvolto dal dolo d’impeto". Inoltre la tipologia di guanti trovata non avrebbe fatto parte della dotazione presente in casa così come l'arma del delitto.
I giudici ritengono poi fondamentale il fatto che la vittima non abbia urlato né prima di essere aggredita né dopo: "Un dato probatorio che si armonizza proprio con la ricostruzione della dinamica omicidiaria appena descritta, siccome eseguita sorprendendo alle spalle la vittima, senza che la stessa avesse avuto il tempo di accorgersi dell’aggressore".
Il fatto che la donna non abbia urlato e la posizione dell'aggressore rispetto a Del Gaudio "contrastano notevolmente con l’esistenza di una precedente lite e, in ogni caso, con il dolo d’impeto in capo all’imputato".
La premeditazione
Per la Corte la premeditazione non sussiste per diversi aspetti. Prima di tutto il fatto che il taglierino non è stato nascosto, ma abbandonato: "Alcuni metri che possono definirsi “pochi” per costituire un nascondiglio sicuro e, al contempo, “troppi”, per essere tale luogo raggiungibile in poco tempo (15 minuti circa) e tornare subito a casa in 7".
Il fatto che sia stato trovato a pochi metri di distanza dal luogo del delitto "sarebbe più compatibile con una finalità di “sbarazzarsi” dell’arma (ordinariamente perseguita da un ignoto rapinatore) e non già di “occultare” l’arma (cui, invece, avrebbe dovuto aver necessariamente interesse l’imputato)".
Era emersa anche l'ipotesi che l'uomo avesse nascosto l'arma in casa propria per poi spostarla. Sia la sentenza di primo che di secondo grado evidenziano che questa contrasta sia con l'esito "della scrupolosa perquisizione domiciliare eseguita dagli operanti" e sia con il fatto che sarebbe stata nascosta "in un luogo molto piú idoneo per non essere ritrovata".
Il sangue
Sui vestiti del marito non sono state trovate tracce ematiche: quella notte né gli operanti né i familiari accorsi non hanno notato sangue sugli abiti. Un dettaglio rilevante considerato che la lesione al collo ha provocato una importante fuoriuscita di sangue.
Non è stata trovata alcuna traccia né sul lavabo né sul rubinetto del bagno confutando così la tesi relativa al fatto che Tizzani si sarebbe lavato le mani e le braccia per eliminare qualsiasi traccia.
"L’ipotesi che Tizzani non si sia sporcato di sangue, in quanto avrebbe utilizzato i guanti, non spiega né la mancanza di tracce ematiche sui vestiti, né il fatto che comunque il sangue si rinviene (da trascinamento) in una pluralità di cose all’interno dell’abitazione". Inoltre sui guanti "non sono stati rilevati profili genetici compatibili con quelli del Tizzani", ma solo quello di "Ignoto 1" che non appartiene né a parenti né ad amici o conoscenti della coppia.
Le testimonianze
I testimoni avevano reso, secondo i giudici primo grado, “dichiarazioni imprecise e condizionate da suggestioni, nonché dal lodevole intento di dare un proprio contributo alla individuazione del responsabile di un così atroce delitto”. Una tesi condivisa anche dalla Corte d'Appello.
L'ipotesi del litigio non sarebbe confermata da quasi nessun testimone: quasi tutti non hanno ricordato "di aver udito grida evocanti un litigio in corso avendo precisato di aver sentito soltanto le urla di un uomo".
Gli unici testimoni che ricordano una voce femminile "non consentono certo di attribuire tale voce ad un litigio coniugale".
Per i giudici, le urla sentite dai testimoni "che nell’impostazione del pubblico ministero appellante, dovrebbero supportare l’ipotesi dell’omicidio commesso dal Tizzani, con dolo d’impeto, al culmine di un litigio con la moglie, cosi smentendo la versione difensiva, in realtà danno conto di un fatto del tutto diverso, che risulta pienamente compatibile proprio con la reazione angosciosa, disperata e rabbiosa, che l’imputato aveva avuto alla scoperta della moglie sanguinante in terra".
Inoltre "appare davvero molto arduo presumere che quella sera vi fosse stato tra i due coniugi un motivo di litigio così grave da indurre il Tizzani ad uccidere la propria moglie" considerato che la nuora, che insieme al marito aveva cenato con a casa dei suoceri, aveva raccontato che la serata era stata “molto piacevole, “veramente una balla serata…”, aggiungendo “abbiamo riso, abbiamo scherzato, é stata una bella serata nomale…".
Da qui per i giudici "veramente non si comprende come possa plausibilmente immaginarsi che in quei pochi minuti trascorsi al termine di quella piacevole serata sia improvvisamente sopraggiunto un motivo di contrasto tra i due coniugi cosi increscioso, grave ed assolutamente intollerabile da far scatenare una tale furia aggressiva".
Il reato di maltrattamenti in famiglia
Sia in primo che in secondo grado, Tizzani è stato assolto dall'accusa di maltrattamenti in famiglia. Nelle motivazioni della sentenza della Corte d'Appello si legge che "nel caso in esame l’affermazione della persona offesa di non volersi separare dal marito e di non volerlo denunciare non è affatto indicativa né di una condizione di timore o soggiogazione psicologica verso l’uomo, né, tanto meno, di una sorta di sindrome di Stoccolma di cui sarebbe affetta la vittima nei confronti del proprio coniuge/padrone"
La vicenda che riguarda Gianna Del Gaudio è del tutto diversa "dal momento che le suesposte sintetizzate risultanze probatorie hanno escluso da un lato che la donna fosse ossessivamente controllata dal marito, dall’altro che vivesse in uno stato di constante “paura” o prostrazione". E su questo fronte vengono citate le testimonianze di alcuni parenti che hanno descritto un clima "sereno e affettuoso" tra i due.
E in questo contesto "ben si comprende come la volontà della donna di rimanere accanto al marito e di non denunciarlo, lungi dal potersi interpretare come espressiva di una indifesa condizione di subordinazione, costituisca riprova che anche sotto il profilo della percezione offensiva quelle condotte del coniuge certamente non avevano reale natura vessatoria, tale cioè da provocare un qualche effettivo e destabilizzante turbamento psicologico".