Gianluca Loprete, 19 anni, questa mattina ha ucciso e fatto a pezzi il padre Antonio di soli 58 anni. A dare l’allarme è stato proprio il primo confessando quanto commesso ed invitando i carabinieri a raggiungerlo nella loro abitazione in via Saint Denis 9 nel quartiere Sesto San Giovanni alle porte di Milano. Padre e figlio, entrambi incensurati, seppur conviventi, non sarebbero stati in buoni rapporti. Lo storico clinico di Gianluca, inoltre, denuncia pregressi disturbi di matrice psichiatrica. Disturbi per i quali il giovane era seguito da un centro di salute mentale.
C’è da chiedersi che cosa possa aver spinto il diciannovenne di Sesto San Giovanni a fare a pezzi il padre, denunciare l’accaduto e poi avvalersi della facoltà di non rispondere di fronte al pubblico ministero. La risposta è da rintracciare negli abissi più profondi della mente umana. E in quelli della coscienza.
Chi si macchia di un crimine così atroce si interfaccia inevitabilmente con un giudice più severo di quello che normalmente presiede un tribunale di giustizia. Un giudice più inflessibile che, a fronte di quanto commesso, ha una voce irriducibile: quella della coscienza. Difatti, la pulsione di chi uccide a sbarazzarsi del cadavere della propria vittima facendolo a pezzi si origina proprio da quest'ultima. Questo è il motivo per il quale Gianluca Loprete ha smembrato il corpo del padre Antonio. Quindi, in questo caso, il vilipendio non ha niente a che fare con la volontà di occultare l’atrocità commessa. Come conferma, del resto, il dato per il quale è stato lui stesso a chiamare il 112 per denunciare l’accaduto. Al contrario, il giovane ha fatto a pezzi il corpo esanime del genitore per prendere emotivamente le distanze rispetto all’orrore commesso. Difatti, nella mente di chi uccide se non esiste il cadavere non c’è più l’omicidio. Quindi, compiere una simile azione serve all’assassino in un’ottica auto conservativa. Perché certamente si prova pietà per un cadavere, ma non per una gamba, un braccio o per un altro pezzo del corpo.
In gergo tecnico, la decisione d brutalizzare quest’ultimo è conseguenza di quello che viene definito “meccanismo di difesa primitivo”. Un meccanismo che consente ai soggetti di non riconoscere una parte di sé, un pensiero o, nella più estrema delle ipotesi, l’agito stesso. Dunque, proprio la volontà di instaurare un distacco emotivo e di non acquisire coscienza dell’accaduto ha portato lo stesso ragazzo, reo confesso, ad avvalersi della facoltà di non rispondere durante l’interrogatorio di convalida del fermo. E credetemi, in questo caso, la decisione non è riconducibile ad una strategia difensiva. O almeno non del tutto.