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Opinioni

Perché è diventato impossibile essere ciclisti a Milano

Per spezzare la terribile serie di incidenti mortali che hanno colpito i ciclisti a Milano è necessario un bagno di umiltà da parte di chi, ormai da anni, amministra Milano.
A cura di Francesco Memo
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È successo di nuovo. Un altro telo bianco, un’altra bicicletta a terra. Un’altra ciclista morta sulle strade di Milano. Anche questa volta a ridosso del centro, in piazza Durante, a pochi minuti da corso Buenos Aires, la via scintillante (e maledettamente trafficata) dello shopping milanese. Ancora una volta una bici ingaggiata con un mezzo pesante, la betoniera che trascina la donna per metri e metri, senza neanche accorgersi dello scontro. Sono stati i passanti a richiamare l’attenzione dell’autista, prima dell’arrivo dei mezzi di soccorso.

Si chiamava Alfina D’Amato, abitava in viale Monza e fino all’anno scorso suo figlio frequentava il Trotter, la scuola delle mie figlie, che dista a pochi metri da Piazza Durante. Non la conoscevo direttamente Alfina, ma in breve ho ricostruito punti di contatto comuni, amici che la conoscevano, e probabilmente ci siamo anche incrociati, entrando e uscendo dal parco che ospita e protegge i nostri figli quando sono a scuola.

Giovedì scorso tra i banchi del mercato di via Ampère, prima che i giornali registrassero l’informazione, la notizia dell'incidente passava di bocca in bocca, ma chi era passato dalla piazza scuoteva la testa senza aggiungere dettagli, perché ciò che aveva visto era troppo pesante e orribile da raccontare. Poi sono iniziati i messaggi whatsapp, l'incrocio comunitario delle informazioni, fino alla conferma di quanto tutti ormai sospettavamo: "È Alfina, una mamma del Trotter".

Alfina D’Amato è la quarta ciclista che da gennaio ad oggi ha trovato la morte a Milano, la settima nell’ultimo anno e mezzo, in incidenti fotocopia con camion e betoniere, anche in vie centralissime a due passi dal Duomo. Notizie che somigliano ormai ad un bollettino di guerra, ad un’emergenza non dichiarata né riconosciuta. Dinamiche che si ripetono in modo agghiacciante, aprendo ogni volta un abisso di dolore, paura e rabbia in noi ciclisti milanesi.

Dolore per chi è stato ucciso in sella al mezzo più gentile e dolce che esista, che ci dona la libertà di muoverci con le sole nostre forze ma che ci lascia anche fragili e vulnerabili nello spazio urbano. Paura, perché se a Milano esci di casa su due ruote senti di avere un’ombra che ti segue, un pericolo che ti minaccia, anche quando felici di pedalare ce ne scordiamo; e questa paura consuma fiducia, modifica scelte, limita libertà e autonomia, la nostra e dei nostri figli. Infine rabbia, tanta rabbia, perché di fronte alla richiesta di fermare questa strage quotidiana – richiesta che la comunità dei ciclisti e degli ambientalisti ha sollevato con tutti i toni e i modi possibili (tavoli di confronto, manifestazioni, veglie e lutti pubblici) – dai decisori riecheggiano solo parole vuote, promesse che si susseguono rimanendo inattese.

Chi, come me, gira per la città in bicicletta – e lo faccio tutti i giorni da anni, essendo la bici il mio unico mezzo di trasporto individuale e familiare – conosce fin troppo bene quello che i dati e le ricerche fotografano con precisione e freddezza analitica. Muoversi in bicicletta a Milano è sempre più difficile e faticoso, tra auto posteggiate, in colonna e in movimento. Auto, auto e sempre auto, che mangiano spazio, avvelenano l’aria, sfrecciano rombando, incuranti del potenziale distruttivo che rappresentano ai nostri occhi. Ci tengono sempre all’erta, come una preda in mezzo alla savana, perché anche da ferme possono tagliarti la strada con lo scatto improvviso d’una portiera. D’altronde, dopo la pausa forzata del Covid il traffico automobilistico in città è cresciuto, mentre non è stata più colmata la perdita di viaggiatori nei mezzi pubblici: spaventati dai rischi di contagio e dalla prossimità con estranei, molti hanno continuato ad usare il mezzo privato anche ad emergenza conclusa.

Quante volte in strada dopo un’improvvisa sterzata o frenata – e un grido liberatorio, quasi animale – ci è capitato pensare: questa volta mi è andata bene, l’ho proprio scampata bella? Quante volte attraversando la strada al verde del semaforo, assistiamo a svolte e comportamenti pericolosi che mettono a rischio i pedoni più fragili, i meno attenti e scattanti tra noi (bambini disabili anziani), affermando una chiara noncuranza verso l’altro, se non direttamente un senso di prevaricazione e violenza? Dopo le facili speranze di cambiamento seguite alla riconquista post-pandemica dello spazio pubblico, sembra che il patto sociale di convivenza sulla strada tra mezzi e utenti diversi diventi ogni giorno più logoro e degradato. Sto parlando di quella sorta di costituzione materiale che va oltre le regole e le norme del Codice della strada – che adesso il ministro Salvini vuole in fretta e furia modificare per rispondere all’incidente "social" di Roma – quel patto non scritto fatto di gesti, sguardi, attenzioni reciproche.

Ma non è solo questo, è proprio lo spazio vitale a disposizione dei ciclisti e dei pedoni a sembrare ridotto. E forse effettivamente lo è se, come confermano dati e statistiche, circolano sempre più SUV e modelli similari, i quali – con le loro alte ruote, le grandi cilindrate, i grugni stentori – occupano una maggiore porzione di strada rispetto ad una comune utilitaria. Del resto, perché stupirsi dell’aumento delle giga-auto quando i ricchi sono sempre più ricchi e l’ostentazione delle disuguaglianze è quasi un valore? Il tutto in barba allo scandalo dei consumi energetici e alle emissioni di gas climalteranti di questi elefantiaci mezzi, nonché alla loro maggiore pericolosità, tanto che diverse città europee, tra le quali Parigi, hanno adottato pedaggi penalizzanti nei loro confronti, per disincentivarne l’uso. Ma a Milano non si parla neanche lontanamente di provvedimenti del genere, e sono certo che al solo proporli si sarebbe prontamente additati come ecoterroristi ammalati di invidia di classe.

La crescita del commercio on line, altra conseguenza non riconosciuta della pandemia, ha poi moltiplicato i vettori che a tutte le ore fanno consegne in giro per la città: ricevere gli acquisti a casa è certamente comodo, ma poiché le merci ancora non volano da sé non possono che calcare le nostre stesse strade (dato che qualcuno, naturalmente, si sobbarca lo sforzo di portarle fino alla nostra porta). Questa nuova logistica si assomma alla consueta fornitura di negozi e supermercati, che coinvolge anche camion di grandi dimensioni.

E le piste ciclabili nate negli ultimi anni e sbandierate dalla giunta Sala come un chiaro segno del cambiamento di paradigma urbano? Qualcosa è stato fatto, e altro si dice sia in programma nei prossimi mesi, ma oltre ad essere insufficienti per copertura, continuità e capillarità, le piste ciclabili a Milano sono poco più che un segno tracciato sull’asfalto, in molti casi anche poco visibile perché non manotenuto a dovere. E spesso il disegno delle due ruote, sbiadito o meno che sia, è colpevolmente coperto dalla pancia di auto, pullman furgoni, tutti parcheggiati senza alcun scrupolo sul tracciato riservato alle bici. Ogni ciclista di Milano lo può testimoniare, e io stesso ho diversi video che posso portare come prova, se dovesse servire. Ma non penso che serva, dato che è lo stesso Comune ad aver riconosciuto che la sosta selvaggia è oggi una piaga diffusa e pervasiva in città.

Ultimo e non ultimo, come tutti sanno negli ultimi anni Milano è diventata un enorme cantiere a cielo aperto. Nuovi palazzi spuntano ovunque, foraggiati da una spaventosa crescita dei valori immobiliari (i cui effetti sociali sono altrettanto evidenti delle gialle gru che svettano verso il cielo), insieme ai grandi progetti di rigenerazione che stanno cambiando il volto di intere porzioni di città e, ancora, alla costruzione di nuove infrastrutture di trasporto, come la linea M4, di cui Milano ha certamente bisogno. Grandi e piccoli cantieri punteggiano centro, semicentro e periferia, col risultato di un continuo via vai di mezzi pesanti che, più volte al giorno, si spostano per la città per scavare, spostare, cementificare. Un’invasione di giganti che impatta su un tessuto urbano fatto spesso di vie medio-piccole, con carreggiate insufficienti, spazi di manovra limitati, marciapiedi stretti e la solita saturazione di automobili.

A maggio, di fronte all'ennesimo ciclista ucciso, il Consiglio comunale – su iniziativa di Marco Mazzei, combattivo rappresentante della comunità delle due ruote – ha approvato all'unanimità un ordine del giorno che chiede alla giunta di regolamentare la circolazione dei mezzi pesanti, obbligandoli a dotarsi di sensori per l'eliminazione dell'angolo cieco. Pare incredibile da dirsi, ma mentre qualsiasi automobile è ormai dotata di una videocamere per agevolare il parcheggio, gli autisti di mezzi di grandi dimensioni sono costretti ad affidarsi ai soli specchietti retrovisori per accorgersi di ciò che hanno intorno. Del resto, si tratta di un costo in più, e si sa che i costi per la sicurezza sono spesso derubricati come inutili. Ora, con la morte di Alfina, l’assessore alla mobilità Arianna Censi ha annunciato che la delibera sarà pronta a luglio, anche se i tempi di attuazione saranno lunghi, tra adeguamenti tecnici e rischio di impugnazione da Roma.

Eppure, qualcosa si può e si dovrebbe fare fin da subito. Ad esempio limitare la circolazione dei mezzi pesanti in alcuni orari o percorsi: non sono necessari strumenti particolari, basta un’ordinanza, come avviene già per la consegna merci. Anche la formazione ad hoc per gli autisti dei camion, al fine di renderli consapevoli dei rischi ai quali espongono ciclisti e pedoni, potrebbe essere una soluzione tampone. E vista l’emergenza in atto, pure una campagna di educazione rivolta ai ciclisti potrebbe essere utile, come mutatis mutandis viene fatta in montagna per gli escursionisti che si imbattono in un grande carnivoro: come comportarsi per ridurre il pericolo indubbio che questi mezzi rappresentano. Oltre all’estensione delle zone 30, già proposta alla giunta dal Consiglio Comunale per l’inizio del 2024 (ma il sindaco Sala ha prontamente fatto sapere di essere tutt'altro che entusiasta dell’invito) e già adottato da altre città, ultima Bologna.

Insomma, per spezzare questa terribile serie di incidenti mortali (dietro e invisibili, non dimentichiamolo, rimangono quelli non estremi, spesso altrettanto gravi per la scia di dolore e problemi che generano) ci vuole un chiaro e riconoscibile cambio di guardia. Come su altre questioni vitali per la città, è necessario innanzitutto un bagno di umiltà da parte di chi, ormai da anni, amministra Milano da posizioni di centro-sinistra. Altrimenti la contraddizione tra rappresentazione e realtà inevitabilmente scoppierà, tra una città che si autoritrae come green, vivibile e amica della bicicletta (e che con questo biglietto da visita si presenta ai molti turisti che sempre più voracemente richiama) e la realtà di una metropoli invivibile schiava di vecchi modelli, incapace di scrollarsi di dosso il ruolo totalizzante che i mezzi ad energia fossile occupano, a livello materiale e culturale, nella propria vita urbana.

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Sociologo urbano di formazione, ha insegnato e fatto ricerca all'Università Bicocca e al Politecnico di Milano, pubblicando con diversi editori. Da alcuni anni si occupa di educazione e animazione culturale alla Centrale dell’acqua di Milano. Scrive su "Doppiozero" e "Il Mulino". È  autore di fumetti e con il graphic novel La vita che desideri (Tunué, 2019) ha vinto il premio Manzoni 2019 per il Romanzo storico.
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