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Perché aumentare gli stipendi in tutta Italia non basta: servono sgravi fiscali per le città più care

Pubblichiamo l’intervento per Fanpage.it dell’assessore del Comune di Milano Pierfrancesco Maran, scritto a quattro mani con Tomaso Greco, sulla proposta del Ministro Valditara di differenziare gli stipendi degli insegnanti su base regionale.
A cura di Redazione Milano
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In questi giorni ha suscitato grande dibattito il fatto che il Ministro Valditara abbia riproposto il tema di differenziare gli stipendi degli insegnanti su base regionale. L’ipotesi, per la verità non nuova, ha suscitato una immediata levata di scudi, specialmente a sinistra dove voci anche autorevoli hanno obiettato che l’innalzamento dei salari deve essere uniforme per tutti. Fare parti uguali tra diseguali non risponde però a un principio di giustizia sociale e rischia invece di alimentare le disuguaglianze, soprattutto se le risorse sono limitate.

Oggi il costo della vita, a partire dalla questione abitativa, morde soprattutto in alcune aree urbane. Con il risultato di rendere sempre meno attrattivo il lavoro pubblico e non possiamo ignorare ideologicamente questo aspetto perché significa creare nuovi “working poor”, lavoratori con un reddito che non riesce a tenere il passo con il costo della vita, e spopolare progressivamente alcuni servizi essenziali come la scuola, i trasporti o gli ospedali. Settori che dovrebbero invece essere fortemente attrattivi a vantaggio di chi ci lavora e di tutta la popolazione. E invece dalla scuola ai trasporti fino agli ospedali il problema di trovare lavoratori per servizi essenziali nelle aree urbane si fa anno dopo anno più rilevante.

Le risorse necessarie per portare gli stipendi ai livelli europei

Ma sgombriamo il campo da polemiche strumentali: aumentare lo stipendio a tutti i docenti significa investire sul futuro del Paese. In uno studio dello scorso autunno l’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani sostiene che per portare gli stipendi degli insegnanti italiani in media con quelli europei servirebbero 11 miliardi circa di risorse aggiuntive l’anno. Restiamo in attesa che Valditara vada oltre le dichiarazioni di principio e presenti un piano di stanziamenti che si avvicini il più possibile all’obiettivo (si calcola che con 3 miliardi si potrebbe avere un primo sostanziale incremento degli stipendi).

Certo rimarrebbe il problema che il potere d’acquisto non è uniforme nel Paese, peraltro non lo è nemmeno su base regionale, anzi forse ancorare la retribuzione al dato meramente regionale farebbe saltare la discussione rendendola ideologica. Non è infatti affatto detto che il costo della vita in Lombardia sia sempre più alto che in Campania. Salerno costa certamente molto di più di tanta provincia lombarda.

La questione riguarda buona parte dei dipendenti pubblici

L’altro aspetto da tenere in considerazione è che il problema degli stipendi bassi riguarda certamente gli insegnanti, ma non solo loro. Buona parte dei dipendenti pubblici, specie ad inizio carriera, ha guadagni che non sono adeguati al costo della vita di città come Milano, Roma e di altre aree a tensione abitativa. Questo non è un problema che riguarda solo il settore pubblico ma tocca numerosi lavoratori privati ed autonomi. E il trend è ancor più preoccupante se si considera che i salari sono sostanzialmente stabili da 20 anni mentre il costo delle abitazioni in aree particolarmente attrattive è in costante crescita.

In attesa che il governo faccia seguire alle promesse di aumenti anche degli stanziamenti e non solo dichiarazioni, ci pare necessario sottolineare che il caro vita è già diventato poco o per nulla sostenibile in molte aree del Paese. Serve mettere in campo, in tempi brevi, una misura fiscale a supporto delle lavoratrici e dei lavoratori, pubblici, privati ed autonomi, nelle aree ad alta tensione abitativa.

In particolare crediamo che si dovrebbe trovare una formula di sgravio fiscale, anche fino a 250 euro al mese, per sostenere le spese dei lavoratori a redditi bassi e medi (diciamo almeno fino ai 26mila euro annui) che risiedono in aree ad alta tensione abitativa. Queste aree, da aggiornare periodicamente, sono distribuite geograficamente nel Paese e una misura di questo tipo consentirebbe a centinaia di migliaia di famiglie di migliorare sensibilmente il proprio tenore di vita e, alle aree urbane, di riuscire ad attrarre lavoratori per servizi essenziali che rischiano di rimanere sguarniti.

Le prime analisi sui costi

Certamente serve una analisi puntuale dei costi di questa misura che, tuttavia, aiuterebbe anche a far emergere dal sommerso numerosi contratti di affitto che vengono stipulati irregolarmente. Da una prima analisi l’investimento di circa 1 miliardo l’anno potrebbe supportare almeno 400mila/600mila famiglie e, immaginando un’emersione dal sommerso di almeno il 15 per cento dei contratti, si rifinanzierebbe nell’anno successivo coprendo una percentuale analoga della spesa.

È evidente che questa misura non sostituisce la necessità di investimento nelle politiche abitative che le istituzioni devono comunque mettere in campo (e non dimentichiamoci che lo Stato da questo punto di vista è da tempo molto latitante) né la necessità di incrementare i salari pubblici e di lavorare sulla riduzione delle tasse per gli altri lavoratori.

Ma al tempo stesso è una misura che garantirebbe che a Milano, Roma, Firenze, Bologna, Bari e nelle aree urbane più costose i lavoratori, tanto nel pubblico quanto nel privato, possano sostenere il costo della vita, senza gli enormi sacrifici che oggi si trovano ad affrontare solo per vivere e lavorare nelle aree urbane.

Articolo scritto da Pierfrancesco Maran e Tomaso Greco

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