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Per 20 anni fa credere alla figlia che le ceneri del padre siano in un’urna, ma le ha disperse: condannata la madre

Una donna ha impedito dal 2014 a sua figlia di poter accedere all’urna del suo defunto padre. Inoltre, si è scoperto che in realtà aveva già disperso le ceneri del defunto 20 anni prima. Il Tribunale Civile di Milano l’ha condannata a risarcire la figlia per 50mila euro.
A cura di Enrico Spaccini
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Foto di repertorio
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Una donna è stata condannata dal Tribunale Civile di Milano a risarcire sua figlia per 50mila euro. Stando a quanto riportato nella sentenza del giudice Damiano Spera, avrebbe violato il suo diritto secondario di sepolcro, impedendole di accedere all'urna cineraria del defunto padre. Inoltre, quell'urna già da tempo non conteneva più le ceneri del defunto: la donna le aveva disperse 20 anni prima all'insaputa della figlia e senza che il suo trapassato marito avesse dato consenso prima di morire.

Dal 2014 la donna impediva alla figlia di accedere all'urna del padre

Il risarcimento quantificato dal Tribunale si è basato su una valutazione equitativa, cioè senza applicare norme di diritto specifiche dato che non ci sarebbero precedenti per casi simili. Stando a quanto ricostruito durante il procedimento, si è scoperto che la donna già dal 2014 impediva alla figlia di accedere ai piani superiori della casa di famiglia dov'era custodita, in un'armadio, l'urna funeraria del padre della giovane.

Come riporta il Corriere della Sera, quell'urna in realtà era vuota da 20 anni. La moglie del defunto, infatti, aveva disperso le sue ceneri senza dire niente a nessuno e senza che l'uomo ne avesse dato consenso prima del decesso.

Un "odioso inganno" durato 20 anni

Quello che sarebbe stato perpetrato per tutti questi anni sarebbe stato un "odioso inganno", ha scritto il giudice Spera, che ha portato alla violazione del diritto secondario di sepolcro. La norma, infatti, stabilisce che tutti i legittimati devono poter accedere alla tomba, o in questo caso all'urna, che contiene un congiunto defunto "per compiervi gli atti di culto e di pietà" e nessuno può impedirlo.

Per questo motivo, riconoscendo la violazione della fiducia, il danno "alle memorie condivise" e la "mancanza di considerazione" per i diritti e i sentimenti della figlia, la donna è stata condannata a pagare un risarcimento pari a 50mila euro.

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