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Pazienti Covid curati in ambulatorio: studio pilota del San Raffaele mostra l’efficacia degli hot spot

Uno studio coordinato dall’ospedale San Raffaele di Milano e pubblicato sulla rivista “Frontiers in Medicine” ha evidenziato l’efficacia e la sostenibilità della gestione dei pazienti Covid paucisintomatici negli ambulatori hot spot, strutture intermedie frutto della positiva collaborazione tra ospedale e medicina del territorio.
A cura di Francesco Loiacono
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In questi anni di pandemia molto spesso i riflettori sono stati puntati sulle carenze a livello di medicina del territorio, in Lombardia (dove il Coronavirus ha colpito per primo e in maniera più virulenta) e altrove in Italia. Bisogna però anche sottolineare quegli esempi virtuosi – non tanti, ma ci sono – che sono sorti fin dalle prime fasi della pandemia e che hanno dimostrato l'importanza della collaborazione tra gli ospedali e la medicina del territorio nella gestione dei pazienti positivi.

È il caso degli hot spot Covid-19, degli ambulatori in cui i pazienti con Covid paucisintomatici, cioè con sintomi di media intensità, hanno potuto e possono tuttora ricevere l'assistenza di cui necessitano e anche le terapie specifiche senza dover essere ricoverati in ospedale. Uno studio pilota coordinato dall'ospedale San Raffaele e pubblicato oggi sulla rivista "Frontiers in Medicine" ha evidenziato l'efficacia e la sostenibilità della gestione dei pazienti Covid positivi in questi ambulatori.

Perché sono nati e come funzionano gli ambulatori hot spot

A Milano i primi ambulatori hot spot sono sorti nell'autunno del 2020, il periodo in cui si è verificata la seconda ondata della pandemia caratterizzata da un numero di contagi molto più elevato rispetto alla prima ondata e che ha fatto finire nuovamente in affanno gli ospedali. Di fronte a numeri così elevati e forti anche dell'esperienza della prima ondata della pandemia, si è deciso di istituire gli hot spot con l'obiettivo di "alleggerire il pronto soccorso e al tempo stesso rafforzare la medicina territoriale, duramente messa alla prova dalla pandemia", come ha spiegato la professoressa Patrizia Rovere-Querini, direttrice del programma strategico di integrazione ospedale-territorio e responsabile dell’hot spot Covid-19 dell’Irccs Ospedale San Raffaele, nonché curatrice dello studio. "Per questo abbiamo organizzato in pochi mesi un hot spot Covid-19 che fosse un luogo di incontro diretto tra medici ospedalieri e del territorio, che potevano condividere casi clinici complessi o segnalare pazienti nelle fasi iniziali della malattia, prima che l’aggravarsi del quadro clinico ne richiedesse l’invio in pronto soccorso".

Gli ambulatori hot spot sono una sorta di struttura intermedia che serve per gestire quella "zona grigia" rappresentata dai pazienti con Covid-19 moderato o con fattori di rischio per malattia severa: il loro ricovero al pronto soccorso può rivelarsi inutile e creare sovraffolamento e saturazione eccessivi, ma al tempo stesso non sempre i medici di base hanno gli strumenti per curarli, come ad esempio nel caso di pazienti che necessitano degli anticorpi monoclonali. Per questo, dopo un'attenta e approfondita valutazione clinica, alcuni tra questi pazienti sono stati inseriti in un programma di follow-up presso l’ambulatorio per ulteriori visite di monitoraggio, sorvegliati attivamente presso queste strutture fino alla stabilizzazione della malattia o alla completa guarigione.

La coordinatrice dello studio: Questa nuova modalità di cura è stata un successo

Per lo studio sono stati presi in esame 660 pazienti valutati tra l'1 ottobre e il 31 ottobre 2021. Di questi, 235 hanno effettuato due o più visite presso gli ambulatori. Per la maggior parte sono stati i medici di medicina generale a inviare i pazienti in ambulatorio (70 per cento), seguiti dai medici di pronto soccorso (21 per cento) e da altri specialisti ospedalieri (9 per cento). Tra coloro che sono stati valutati presso l’ambulatorio, solo il 18 per cento dei pazienti valutati presso l'ambulatorio è stato indirizzato nei pronto soccorso per malattia severa con bisogno di ricovero ospedaliero, mentre la restante parte è stata gestita presso l’ambulatorio e poi riaffidata al medico curante. "Questa nuova modalità di cura, modellata sui bisogni del paziente, è stata un successo – ha concluso la professoressa Rovere-Querini -. L’augurio è che tutto ciò che abbiamo imparato durante questa pandemia non si perda. Potrebbe infatti essere riutilizzato per il paziente cronico, che necessita di monitoraggi e cure continuative, spesso da parte di medici specialisti in collaborazione con i medici di medicina generale".

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