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Omar Pedrini: “La malattia c’è ancora, devo fare l’ottavo intervento. Milano mi vuole bene, a Brescia non canto”

“Lo dico per la prima volta. A novembre ho un altro intervento. Mi hanno detto che dovrebbe essere l’ultima tappa di un lungo calvario”, Omar Pedrini, storico cantante dei Timoria, si racconta a Fanpage.it in un’intervista sul suo rapporto con le città di Milano (dove vive) e Brescia (dove è nato).
A cura di Paolo Giarrusso
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Più di venti album, oltre trecento canzoni, duemila concerti, sette operazioni a cuore aperto, molte vite. Questo, in estrema sintesi, il percorso artistico e umano di Omar Pedrini, 57 anni, leader per quasi 20 anni dei Timoria, poi cantante solista, poeta, showman, autore e conduttore TV, artista trasversale, attore e docente di master in università. In una lunga intervista a Fanpage.it, il musicista bresciano si racconta e racconta la propria storia, umana ed artistica, fatta di coraggio, scelte in controtendenza, momenti difficilissimi e tanto rock'n'roll targato Italia.

Sei cresciuto in una famiglia dalla forte tradizione musicale. Strada già segnata?

Credo che fosse proprio destino. Vengo da una famiglia operaia. Lago di Garda. Campione del Garda, un paese piccolissimo. Le 400 anime che vivevano lì erano tutti operai del cotonificio Olcese di Milano. Olcese era un imprenditore illuminato che diceva: "Chi viene a lavorare da me, avrà una casa e un orto". I Miei bisnonni, nonni, papà e mamma, tutti a lavorare in cotonificio. Papà Pedrini era particolarmente brillante negli studi. Olcese disse: "Bisogna farlo studiare". Pagò la borsa di studio e lo mandò a Riva del Garda, dove c'era il liceo classico.

Famiglia operaia, dicevo. Ma ecco la luce che illumina la mia strada: il mio bisnonno era liutaio: faceva i mandolini e insegnava musica ai figli degli operai. Sua figlia Nina suonava la chitarra. Sua sorella, il mandolino. Tutti i sabati e le domeniche a casa loro c'erano mia mamma Daria che cantava, sua mamma e sua zia al mandolini, il nonno con il clarinetto. Ognuno portava qualcosa: una bottiglia di vino, un salame, il fornaio il pane. Era festa tutti i weekend.

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A 6 anni mi fu regalata la prima chitarra, fatta dal bisnonno e mi ricordo ancora la frase che mi fu detta: “Omar, con la musica non sarai mai solo”. Quindi, davvero sembrava un destino già segnato. A mia volta fui iscritto al classico a Brescia. Ero ribelle e brillante. Volevo fare il giornalista  Avevo la band, ma pensavo alla musica come ad un hobby. Io e gli altri Timoria eravamo bravi e fortunati. Vinciamo un concorso tra le scuole. Ci invitano a Milano a "Rock targato Italia". Lo vinciamo. Ci vede il manager della Polygram e ci fa il primo contratto. A 23 anni ero sul palco di Sanremo. Però  volevo fare il giornalista, pensa…”.

Nel 1985 formi i Sigma SIX, poi Timoria. Il liceo classico ti aveva fatto incontrare Carlo Alberto Pellegrini (bassista), Enrico Ghedi (tastierista) e Diego Galeri (batterista). Possiamo dire: galeotto fu il liceo classico Arnaldo da Brescia?

(Ride) Penso che sia proprio così.

Negli anni '90 i Timoria pubblicano diversi album. Qual è stata la stella polare del vostro percorso musicale?

Due le stelle polari. La più importante, quella emotiva: fare il rock in lingua italiana. Era la fine degli anni '80. Andavo nelle case discografiche. Mi dicevano "bel testo, bella canzone…Però traduci i testi tutti in inglese". Io ero un classicista, volevo che capissero tutti quello che cantavo. Nel '91 andiamo a Sanremo con il rock italiano e la canzone ‘L’uomo che ride'. Veniamo subito eliminati e pensiamo: "Forse dovevamo davvero cantare in inglese".

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Torniamo a Brescia. Mia mamma sul balcone di casa, si sbraccia e urla in continuazione. Penso e dico: "Sì, mamma, è andata male, non ti ci mettere anche tu". Lei mi fa: "Dovete tornare a Sanremo. È da stamattina che continuano a chiamarmi i giornalisti. Vi hanno dato un premio. Tornate a Sanremo". La mattina dopo l’assemblea dei giornalisti comunica di avere deciso, per "l'ingiustizia subìta dai Timoria" di istituire il premio della critica anche per i giovani. Prima c’era solo per i big. Ed era nostro.

Da allora, io, ogni anno, vado a comprare il disco di chi ha vinto il premio della critica per i giovani. Da lì siamo decollati. Nel '93 il primo disco d'oro. L'obiettivo era quello di far capire che anche gli italiani erano in grado di fare rock e l'obiettivo era stato raggiunto in pieno. La mia parola d'ordine artistica, poi, la mia seconda stella polare, era la contaminazione tra le arti: l'oggetto del mio insegnamento in Cattolica per 15 anni. Il mio corso era ‘Laddove la musica incontra le altre forme d’arte'.

Parallelamente all'attività  con i Timoria, cominci il percorso come solista. Ti stavano stretti i Timoria?

Il mio primo disco da solista, che poi segnò la mia uscita dai Timoria, l'ho fatto perché volevo sempre di più andare verso il cantautorato. Più importanza alle parole e musica meno aggressiva. Questa scelta fece storcere agli altri il naso. C’è stata un po' di maretta. Renga se n'era già andato. Ci siamo presi una pausa, diventata uno stop definitivo. Purtroppo, nel 2004, faccio di nuovo Sanremo, rivinco il premio per il miglior testo ma un mese dopo cado e finisco in ospedale, in coma, ed inizia il mio calvario.

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Dopo la prima operazione per un aneurisma aortico, quindi, scopri di avere un cuore quantomeno capriccioso o, come dici tu, malandrino. Cosa hai pensato in quel momento?

La prima cosa che ho pensato, emotivamente, è stata: "Spero di poter fare ancora la mia musica". La mia vera paura era di non poter cantare più. Poi, ho pensato alla spiritualità. La fede mi ha tenuto compagnia nella mia vita. Ogni tanto medito e credo che ci sia un Dio solo. Nel mio ultimo album c'è un'Ave Maria. Sono stato chiamato in Vaticano e sono stato ricevuto da Papa Francesco. Ho avuto la forza di dirgli: "Non voglio niente. È vostra. Fatene buon uso".

In totale hai subito sette operazioni al cuore. I medici, e tu concorde, avete detto: un’ultima tournee e poi stop. Hai aggiunto che farai il contadino in Toscana. Come puoi rinunciare alla musica?

Lo dico per la prima volta. A novembre ho un altro intervento. Mi hanno detto che dovrebbe essere l'ultima tappa di un lungo calvario ( …si commuove, Ndr). Però mi hanno anche detto di non sforzare troppo il cuore. Canterò da seduto. Magari a teatro. Io amo dire che ho sposato la musica ma che la mia amante è il teatro. Ho fatto tante tournee nei teatri. Amo la liturgia del teatro. Aggiungo che mio suocero è un grandissimo cardiochirurgo. Una fortuna: mi ha salvato la vita. Una sfortuna: continue raccomandazioni e ramanzine.

Tutto questo mi ha fatto pensare di tornare al teatro canzone. Poi, però, il progetto di fare il contadino in Toscana, è già partito. Ho già iniziato i lavori nella mia tenuta che ho dagli anni '90. La sto trasformando in un B&B. Se dovessi rivedere i miei piani, invece, diventerà la mia fonte unica di guadagno. Vorrei morire nella “mia” Toscana, invecchiando tra le mie colline, il mio vino, il mio olio, con uno studio di registrazione dove creare le mie canzoni. Pensa, non ho mai dato una canzone( ne ho pubblicate  più di 300)ad altri. Forse ora lo farei,  se ne fossi coinvolto e convinto.

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Quante volte hai avuto paura di morire?

Non l'ho mai avuta. Il pensiero di morire l'ho avuto durante il periodo del Covid, non per il virus ma perché, come cardiopatico, non potevi andare in ospedale. Io ho aspettato un anno, prima di essere operato. Mi operano e va male l'operazione. Lì ho pensato di "andarmene". Io, ogni giorno, quando apro gli occhi, sono grato alla vita e l'attenzione agli ultimi è una cosa che è dentro di me. Se mi hanno salvato la vita – mi sono detto – non è solo per stare sul palcoscenico,  ma è perché devo restituire in qualche modo la fortuna che ho avuto. La mia paura è stata, davvero, di non potere cantare più. Non mi tornava più la voce. È tornata, flebile e acuta, dopo 12 giorni. Lì ho capito che la mia morte è vivere senza la musica.

Nello slalom tra le varie operazioni, sei stato inarrestabile: album a tutto spiano, cortometraggi, progetti discografici indirizzati a iniziative di beneficenza, autore e conduttore televisivo,  programmi di enogastronomia, testimonial musicale della nascente Rai 5. Una reazione a quel maledetto 2004, o più semplicemente un’esplicazione della tua grande versatilità artistica?

È stata la reazione a quel maledetto 2004. Ho capito che il tempo fugge davvero, come la vita ci sfugge e passa tra le dita. Di qui, la necessità di esprimere, presto e bene, tutto quello che avevo dentro. Non ho da tempo momenti liberi, perché ho la paura che un giorno mi dicano stop. Voglio portare a termine tutti i miei progetti.

Sei un artista oltremodo sensibile. Da dove viene questa grande sensibilità?

Un po' dal mio DNA. Papà con i suoi amori culturali. Mamma, che era una hippie. Io sono nato nell'estate del 1967, "the summer of love". Si mettevano i fiori nei fucili dei soldati che partivano per il Vietnam. Credo che il mondo, in quel momento avesse questa energia cosmica positiva. Due mesi prima che io nascessi, quell'anima sensibile di Luigi Tenco si è uccisa. Non sopportava lo show business. Un po' come me. Ecco, credo proprio che da tutto questo sia nata la mia sensibilità.

Qualche passo indietro: 1998. Francesco Renga lascia i Timoria. Si dice a causa di probabili tensioni con Omar Pedrini diventato sempre più leader. Nel 2011, tu duetti con Renga al teatro Creberg di Bergamo. L'evento sancisce la riunificazione fra te e Francesco. Ricostruzioni corrette?

Assolutamente no. A Bergamo è stata messa una pietra sopra alla lite avvenuta 13 anni prima, per una importante questione di donne. Ed è stata un’emozione incredibile. È stata seppellita l’ascia di guerra, anche se poi non abbiamo più fatto nulla insieme. Qualcosa si era rotto e l’amicizia non è più riesplosa.

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Due città, Brescia e Milano. Qual è il rapporto di Omar Pedrini con queste due città?

Il rapporto con Milano è meraviglioso perché mi ha dato tutto quello che Brescia mi ha negato. Io, ancora oggi, a Brescia non canto. Mezza Brescia mi ama, mezza mi detesta. Milano, invece, mi vuole bene e mi capisce da sempre. Mi sento compreso. Sono però un grande tifoso del Brescia e un grande fan della curva nord.

Un bilancio di Omar Pedrini, artista e uomo, lo puoi già fare?

Tirare i bilanci non vorrei portasse sfortuna. Io ho sposato Veronica, figlia di un cardiochirurgo, avvocata, 20 anni di differenza tra me e lei, dalla quale ho avuto due figli. Profondamente diversi, io e lei. Tutti dicevano: "Ma che ci trovate l'uno nell'altro?".

Forse ci amiamo proprio perché siamo così diversi. Se tirassi le somme, direi la frase della canzone scritta e dedicata a lei,  Veronica: ‘Qualche alto tra i bassi'. Questa è la mia vita. Sono amato dalla stampa, che mi coccola da sempre. Quando esco con i miei dischi, ho sempre begli articoli sui giornali. Riesco a fare i miei 60-70-80 concerti all'anno. I miei libri, i miei programmi… soprattutto sono libero. Dico quello che penso.

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