Nino Ciccarelli, una vita da ultras dell’Inter: “Per la Curva siamo anche disposti a morire”

Nino Ciccarelli, ovvero il fondatore del gruppo storico della tifoseria organizzata dell’Inter i “Viking”, ha raccontato a Fanpage.it cosa vuol dire essere un ultras.
A cura di Giorgia Venturini
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Nino Ciccarelli, il fondatore del gruppo storico della tifoseria organizzata dell'Inter "Viking", racconta tutta la sua vita un po' dentro e un po' fuori lo stadio. Quella Curva è la sua vita.  Cosa vuol dire? "Vivere, vivere per quella cosa. Anche essere disposti a morire per quella cosa". Ciccarelli lo ha spiegato a Fanpage.it e nel suo secondo libro "Senza cuore". Ha infatti ricostruito gli anni degli scontri più accesi tra le tifoserie, spiegato il patto di non belligeranza tra le curve di Inter e Milan – "bisognava proteggere Milano" – e raccontato del gruppo unico CN 69 ora bandito dopo l'inchiesta della Procura di Milano sulle Curve di Inter e Milan.

Perché il tuo secondo libro si chiama "Senza cuore"? 

Il libro "Senza Cuore" è il mio secondo libro, dopo "Il teppista" dove parlavo di una vita più spensierata del mondo ultras. Nel secondo invece racconto un mondo più complicato: si parla di una Milano che cambia. Prima si viveva di emozioni, adesso si vive di niente, solo di apparenza e di immagine. Proprio per questo è "Senza cuore" perché comunque forse nel mondo ultras il cuore è rimasto a quello di 50 anni fa. Allora trovavi ancora l'entusiasmo di persone che si facevano quattro giorni di viaggio per andare a vedere una partita. La passione non si trasmette, la passione ce l'hai. Anche i sacrifici non sono sacrifici.

Come si organizza un tifo?

Il tifo è organizzato da varie persone che lavorano tutta la settimana. C'è chi si occupa dei cori, c’è chi si occupa della coreografia, di organizzare le trasferte, di organizzare qualsiasi cosa. Ora siamo in tanti, in passato eravamo pochi e ci conoscevamo tutti. Ora inoltre con le restrizioni si è vincolati su tante cose. Una volta era tutto più spontaneo. Per questo a suo tempo la passione era una passione reale.

Quindi oggi è un po' più difficile diventare ultrà?

Difficilissimo, perché solo le restrizioni te lo impediscono. Invece ultras vuol dire andare oltre, andare oltre le persone normali.

Per te che cosa significa essere ultras?

Vivere, vivere per quella cosa. Anche essere disposti a morire per quella cosa.

Che tipo di ultras sei stato quando eri più giovane?

Meglio non dirlo. Vent'anni fa in tutte le cose ero oltre. Prima veniva la Curva e poi veniva l'Inter. Nel senso che anche se perdevamo io ero felice se la mia Curva aveva cantato bene, se aveva fatto bella figura. Perché quello che mi rimaneva dentro era quello che avevo vissuto in Curva. Ho passato anni in cui l'Inter non vinceva nulla, l'unica cosa che ci faceva stare bene era l'appartenenza alla Curva.

C'è solidarietà tra voi? Vi aiutate ora, soprattutto dopo il caos dell'inchiesta sulla Curva?

Certamente, ma c'è sempre stata solidarietà. Nei momenti difficili ti accorgi che il gruppo è diventato più compatto. Perché chi ci tiene si rimette in gioco. Tanta gente che magari aveva mollato un po’ capisce il momento, la situazione difficile, e si è rimessa ancora in gioco. Capisce cosa gli ha dato la Curva: c'è gente che è morta, che è andata in galera, che ha perso il lavoro e la famiglia. La Curva deve andare avanti perché è qualcosa che senti tua come un figlio.

Infatti dopo il caos nato dall'inchiesta, tu hai detto: "Non molliamo e andiamo avanti"…

Certo.

Ma come si va avanti dopo un’inchiesta del genere?

A testa bassa ricominci dal passato perché io penso che se non hai un passato non puoi avere un grande futuro. Il passato ti dà le basi solide per poi andare avanti con altre idee. Perché è normale cambiano i tempi, cambiano anche le esigenze…

Dopo questa inchiesta si sta generalizzando sul tifo…

Io non voglio parlare di questo. Ti dico una cosa: ho sempre fatto parte dei direttivi e quello che mi interessava è che la Curva facesse coreografie, che i ragazzi andassero in trasferta, se le spese legali fossero pagate…poi di tutto quello che si dice io non so nulla. La Curva andava avanti. E negli ultimi due anni era una gran Curva perché cantava tutto lo stadio. Io da piccolo sognavo sempre che tutto lo stadio cantasse. Quando lo vedi, cosa vuoi di più?

Se c'era qualcosa che non andava sarei stato il primo a dirlo. Adesso tutti sono voltafaccia. Però io guardo cos'è la curva, non tutto il resto. Io non giudico nessuno perché sono il primo che deve essere giudicato. Dunque non mi posso permettere di giudicare qualcuno.

Nel tempo è cambiato il rapporto con la tifoseria del Milan?

Ora si parla tanto del patto tra tifoserie di Inter e Milan, ma questo patto risale fin dai primi anni '80.

Ce lo puoi spiegare questo patto?

Il patto è stato fatto perché nei primi anni '80 ai derby si è arrivati anche a spararsi allo stadio. Nelle tifoserie c'era la prima delinquenza milanese. Uno non se le teneva la botte, qualcuno poi ti veniva a prendere in zona: quelli di piazza Prealpi andavano in Barona. E la cosa, a un certo punto, era degenerata. Anche perché io andavo a scuola con un mio compagno, poi solo perché lo trovavo allo stadio lo dovevo sprangare?

Io penso che Milano sia Milano, tu dunque devi proteggere Milano. Il buon senso ha portato a questo patto. Da anni ci troviamo tutti allo stesso bar, tifoseria del Milan e tifoseria dell'Inter. Tutti hanno rispettato e accettato il patto.

Oggi si dice anche che la curva dell’Inter abbia copiato un po’ quella del Milan, lo smentiamo?

Prima di tutto, noi in Curva Nord siamo stati i primi a mettere lo striscione in trasferta. Dopo la morte di Vittorio Boiocchi c’era bisogno di compattarsi all'interno della Curva. Abbiamo deciso di fare un unico gruppo perché capivamo che in quel momento c’era disgregazione. Prima ogni gruppo era autonomo, vendeva le proprie cose. Poi è stato anche più semplice portare uno striscione unico in giro anche per tutti i divieti che ti impongono.

Il tuo gruppo come è nato?

Il gruppo Viking è nato da me e da pochi amici. Ai tempi per farti riconoscere dovevi darti un nome. Allora abbiamo pensato ai vichinghi perché ci piaceva questa idea che loro andavano, navigavano, conquistavano…sono stati i primi pionieri del mondo e noi ci sentivamo come loro. Ovvero pronti alla battagli e pronti a viaggiare ovunque.

Quando torni allo stadio?

Non lo dico se no mi arriva un’altra diffida. Non vedo lo stadio da quasi undici anni. Non è neanche semplice stare dietro a tutta l'organizzazione della Curva e non potere entrare allo stadio. Poi tutte le persone che ti sono vicine, che potrebbero gestirla sono tutte diffidate come te.

Ci descrivi il vero ultras? 

Era quello che andava in trasferta senza una lira ma in qualche modo riusciva a entrare nello stadio. Sapevi però che una volta là era vita mia morte tua. La sfida ti piaceva perché poi se vincevi sugli spalti eri felice.

Tu le davi, le prendevi? 

Mi divertivo.

Hai quel tuo nickname che è passato alla storia, "Ombrello". Cosa vuol dire? 

Quando il tempo diventa brutto, pensi: "Qua piove, si mette male: tu apri l’ombrello".

E tu eri l’ombrello per i tuoi amici?

Coprivo, è la mia vita. Alla fine io l'ho fatto per mia scelta. Non me l'ha imposto nessuno. Essere ultras vuol dire che sei tu che scegli quello che vuoi fare. Non è come al lavoro che sei obbligato a farlo. Magari fai più sacrifici di quando vai a lavorare, però è una tua scelta ed è qualcosa che vuoi fare tu. La vita da ultras non è tutta collegabile al pugno.

È diventato più figo andare allo stadio oggi?

Non lo so, io non ci vado, non te lo posso dire. Se vuoi ti posso dire se è più bello andare in Questura a firmare. Sicuramente prima era un sacrificio andare allo stadio: non avevi una lira per il biglietto. Costava 5000 lire il popolare, ovvero come se fossero 50 euro. Ora paghi i 150 euro un secondo anello, cioè follia.

Come si faceva prima quando non c’erano i tornelli?

Si scavalcava. Andavo la mattina alle 8 quando avevo dodici o tredici anni e mi nascondevo dentro lo stadio. La partita era la sera. I poliziotti ti cercavano, tu dovevi nasconderti. Ma eravamo dentro in 200-300 persone. Non ti dico i derby…

Quando andavi allo stadio la domenica com’era la giornata tipo?

Si andava a cercare gli altri tifosi all’inizio. Era una caccia continua, perché una volta non facevamo tante coreografie e quindi dovevamo evitare che la facessero gli altri. Mi ricordo che la tifoseria del Milan era spaziale in confronto alla nostra come coreografia e organizzazione. Però noi godevamo perché eravamo più cattivi.

Hai mai avuto paura?

La paura ti aiuta, se non hai paura sei un pazzo. Ti serve a capire nei momenti difficili cosa devi fare. Io sbagliavo sempre e io non ne ho azzeccata una.

Intervista di Simone Giancristofaro e Giorgia Venturini

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