Disumano. Alessandro Impagnatiello ha sacrificato la vita della sua compagna Giulia Tramontano e del figlio che portava in grembo per punirli. Perché ormai erano diventati una minaccia per il suo potere, per il suo senso di controllo e per la sua immagine agli occhi di un'altra donna. In gergo tecnico, ma anche negli ambulatori, quando si fa cenno al fenomeno del narcisismo patologico a chi spesso cade in trappola, si dice sempre: non c’è carnefice senza le sue vittime. Ed è sempre così. Perché i vampiri emotivi, come vengono spesso chiamati anche in letteratura, si cibano della sofferenza altrui per risplendere. Una sofferenza che mai proviene da un’unica fonte. Purtroppo.
Alessandro era fidanzato con Giulia da circa due anni, ma da qualche mese la tradiva con una collega di lavoro. Che in un primo momento non sapeva dell’esistenza di Giulia. E Giulia, sempre inizialmente, non sapeva chi fosse lei. Un classico. Un copione che si ripete sempre uguale. Sui libri degli addetti ai lavori trovate la spiegazione sotto il paragrafo “l’harem del narcisista patologico”.
Giulia era incinta da sette mesi, mentre la collega di lavoro aveva abortito di comune accordo con Alessandro lo scorso gennaio. I narcisisti patologici sono abili manipolatori, ma non sempre riescono a tenere la maschera. E quando questa cade i danni che possono commettere sono frequentemente irreparabili. E sanguinari. Ma per favore, non chiamatela follia. Non si può ridurre a questo quello che è accaduto a Senago.
Cosa spinge un “uomo” ad uccidere la compagna incinta
Alessandro ha prima disumanizzato, degradato ed umiliato la sua compagna. Poi l’ha uccisa. Trattando la sua vita e quella di suo figlio come se non avesse alcun valore. Una totale assenza di considerazione per l’esistenza ed il benessere altrui.
In tanti si sono chiesti, e si chiedono, il perché neppure il fatto che Giulia aspettava un figlio ha fermato la sua furia omicida. La risposta è aberrante e fin troppo da manuale. Sicuramente frutto di quella relazione tossica. In sostanza, per Impagnatiello, come per tutti i narcisisti patologici, Thiago altro non rappresentava che una estensione di sé. E, dunque, si è sentito in diritto di esercitare il potere di vita e di morte anche su di lui.
Un figlio che non voleva, e che lo aveva portato addirittura a falsificare il test del DNA da esibire all’amante conosciuta sul posto di lavoro. Uccidendo Giulia e la creatura che portava in grembo, Alessandro ha placato un bisogno per lui patologicamente esistenziale. Quello di ripristinare il controllo totale su di lei e sul destino del loro stesso bambino. Il diventare nuovamente padre lo avrebbe esposto a nuove responsabilità. E questo non poteva tollerarlo. Perché quelle stesse responsabilità gli avrebbero impedito di concentrarsi esclusivamente su sé stesso e sulle proprie esigenze.
Quel sadico piacere di distorcere la realtà
Alessandro ha raccontato di non essersi disfatto subito del cadavere, ma di essere andato in giro in auto con i resti di Giulia nel bagagliaio. Ciò perché ha sperimentato piacere, soddisfazione e senso di potere nella consapevolezza di aver ripristinato i ruoli nella relazione. Quei ruoli da lui stesso stabiliti.
Per un narcisista patologico, l'immagine di sé e la reputazione sono estremamente importanti. Se la compagna incinta diventa un ostacolo alla loro immagine pubblica o all'immagine che vogliono proiettare all'amante, avvertono la necessità di eliminarla.
Questa è stata la leva che ha spinto Impagnatiello ad uccidere Giulia. L’omicidio è stato visto dall’uomo come l’unico mezzo per preservare la sua reputazione e mantenere l'immagine ideale che desiderava proiettare sull’altra donna. Lì, dove erano miseramente falliti i pregressi tentativi manipolatori e dove si era rivelata fallace la narrazione distorta della sua relazione.
La collega, infatti, aveva scoperto la storia parallela con Giulia e le menzogne di Alessandro nell’aprile di quest’anno. Nonostante i tentativi dello stesso di screditare in ogni modo non solo la sua storia di convivenza. Ma anche la persona di Giulia. Spingendosi addirittura a raccontare all’amante di averla accompagnata in vacanza ad Ibiza perché “mentalmente instabile e perché gli aveva manifestato l’intenzione di volersi uccidere”.
Quando il carnefice ha le chiavi di casa
Da tecnico non posso permettermi di accodarmi al sensazionalismo o di ascoltare la pancia. Ma come operatore del sistema una cosa alle istituzioni va ricordata.
La lotta contro i femminicidi non può essere ridotta ad una partita di calcio. Non si può combattere per salvare il risultato. Giulia è stata uccisa nella sua abitazione, che avrebbe dovuto rappresentare il contenitore degli affetti. Dunque, la sua storia ci sbatte ancora una volta in faccia che in alcuni casi, forse la totalità, non si può dire di no all’ultimo appuntamento. E non si può fare perché il No non è attuabile. Non lo è perché le vittime vivono con i loro aguzzini e vengono massacrate nelle loro case. Da chi ha le chiavi.