Muore a 18 anni in carcere dove non doveva stare, l’avvocata: “Doveva essere curato, non avrebbe commesso reati”

Per vizio totale di mente, Youssef doveva andare in una comunità terapeutica per essere curato e non in carcere, ma non c’erano posti disponibili.
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Youssef Mokhtar Loka Barsom, nato in Egitto e arrivato in Italia da solo a 15 anni, passando dai lager della Libia, è morto 18enne, il 6 settembre, nel carcere di San Vittore di Milano dove però – dichiarato due volte incapace di intendere e di volere – non doveva stare.

La storia di Youssef non è solo quella dell'ennesimo morto nell'annus horribilis delle carceri italiane, oltre 100 con 70 suicidi. La sua è anche la storia del fallimento di un sistema, come spiega a Fanpage.it l'avvocato Monica Bonessa che di Youssef è stata la legale fino al compimento dei 18 anni:

"Per Youssef era stato disposto il collocamento in comunità terapeutica, con la specifica indicazione dell'assoluta incompatibilità con il carcere. Se le sentenze del Tribunale per i minorenni avessero trovato esecuzione, Youssef non sarebbe stato in mezzo alla strada a luglio, non avrebbe commesso un reato da maggiorenne e non sarebbe finito San Vittore".

La storia di Youssef

Youssef arriva in Italia dopo aver abbondonato l'Egitto a 15 anni. Passa attraverso uno dei campi lager della Libia e raggiunge l'Italia con un barcone ammanettato mani e piedi. Il primo incontro con l'avvocato Monica Bonessa avviene nel 2022.

Youssef è minorenne e si trova nel carcere Beccaria di Milano come misura cautelare, per aver rubato una bottiglia di vodka in un supermercato. "La prima volta che l'ho visto sbatteva la testa contro il muro, cercando di farsi del male" è il ricordo dell'avvocato.

Viene svolta una perizia e il ragazzo viene definito incapace di intendere e di volere con un deficit cognitivo che si aggiunge all'assenza di qualsiasi forma di educazione scolastica: Youssef non sa leggere e non sa scrivere il proprio nome.

A Youssef viene riconosciuta pericolosità sociale – "dopo l'esperienza in Libia per lui era familiare l'uso delle armi bianche, coltelli e lame, non aveva consapevolezza delle sue condotte spiega l'avvocato Bonessa" – e ne viene disposto il collocamento in una comunità terapeutica. Youssef non può stare in carcere ma deve essere curato.

E qui il sistema si intoppa perché non ci sono posti liberi. L'avvocato Monica Bonessa racconta di aver cercato per due anni e mezzo un posto a Youssef, senza risultati. Le comunità terapeutiche, le uniche in grado di seguire i ragazzi come Youssef, con personale sanitario e terapie farmacologiche e comportamentali, sono piene.

Youssef viene mandato in comunità educative che sono aperte e con meno vincoli. L'ultima comunità che ha ospitato Youssef è il Gabbiano di Morbegno. L'educatrice Alice Mondora ha seguito Youssef per alcuni mesi, ci racconta la passione del 18enne per la musica e la cucina, la generosità, l'esuberanza di Youssef ma anche il dolore per le violenze subite in Libia – "qualcosa si è rotto nella mia testa" spiegava il ragazzo all'educatrice, nell'ultimo periodo "Youssef aveva davvero tato bisogno di aiuto".

Quando Youssef scappa dal Gabbiano e commette un nuovo reato a Milano finisce a San Vittore, dove muore il 6 settembre in circostanze ancora da chiarire. È chiaro invece che Youssef a San Vittore non doveva starci.

L'inchiesta per omicidio colposo

Intanto la procura di Milano sta indagando sulla morte del 18enne. Il suo compagno di cella è indagato per omicidio colposo, un atto dovuto per procedere agli accertamenti. Youssef è morto carbonizzato nel bagno della sua cella dopo che era stato incendiato un materasso.

Bisogna capire se l'incendio sia stato innescato come protesta o se sia stato un gesto autolesionista da parte di Youssef. Rimane lo sgomento per la morte del ragazzo e tante domande inevase. Venerdì alle 18.30  al CAM Garibaldi di Milano ci sarà una commemorazione pubblica per ricordare Youssef.

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