Mario Lavezzi: “Ero con Loredana Bertè, ho preso la chitarra ed è nata In alto mare. La nostra storia? Un disastro”
Nato l'8 maggio 1948 a Milano, ha manifestato sin da giovanissimo un'incontenibile passione per la chitarra, che ha studiato prima da autodidatta e successivamente presso la Scuola Civica di Milano. Mario Lavezzi è un totem della musica. Ha lavorato con i più grandi artisti, un vero e proprio vulcano di idee e attività. Ora si racconta a Fanpage.
Tutto è iniziato nel lontano 1963, dal tuo incontro con altri amici del quartiere dove vivevi, al Giambellino, all'Oratorio San Vito: nascono i Trappers, con te cantante-chitarrista e altri quattro, tra cui Bruno Longhi, noto cronista sportivo.
Sì, certo. Eravamo studenti, appassionati di musica. Provavamo sulle panchine di Piazza Napoli. Suonavamo, tutti trainati dal fenomeno dei Beatles, da Elvis Presley, in tutti i locali di Milano: una volta l'attuale quadrilatero della moda era il quadrilatero dei locali. Al centro di Milano c'erano una ventina di locali.
Ecco, tu appassionatissimo della chitarra. I tuoi genitori, però, ci tenevano al cosiddetto pezzo di carta. E tu sei riuscito comunque a conseguirlo…
Sì, i miei volevano che qualcosa di concreto, comunque, ci fosse. C'era un “diplomificio”, a Milano, in Piazza del Duomo, sopra l'allora Alemagna, e così ho ottenuto il diploma. Attenzione, in matematica me la cavavo!
Dopo lo scioglimento dei Trappers, due anni nei Camaleonti e, alla fine del 1968, l'incontro con Mogol e l'inizio della tua attività di compositore. Cosa ha significato per te l'incontro con Mogol?
Molto, io avevo il tormento di avere dovuto lasciare i Camaleonti, per adempiere al servizio militare. Non nego che, grazie a delle conoscenze per merito dei Camaleonti, avevo saltato la trafila ed ero diventato l'autista del maresciallo. Avevo del tempo libero. Lo prelevavo alle 7.30 del mattino e lo accompagnavo a casa alle 12.30-13. Nella mia casa di campagna, in Valganna, con le mie chitarre, ho scritto la prima canzone della mia vita, ispirata dai Procol Harum, strumentale e cantata. L'ho sottoposta per primo a Minellono. Lui doveva scegliere i 45 giri che venivano inviati dall'estero, per poi farle diventare delle cover. Sentita la mia canzone, dimostrò sincero entusiasmo. Io ero però attento affinchè non me la "scippassero". Intanto Minellono aveva chiamato Mogol, che era anche il produttore dei Dik Dik, con Battisti. Gli abbiamo fatto ascoltare la canzone. Gli piacque molto. L'avevo chiamata “Giovedì 19”. Mogol disse: “Ma ragazzi, non possiamo fare tutto il calendario”. Cambiò il titolo in “Primo giorno di primavera”. Fu un successo incredibile.
Mogol e Lucio Battisti fondarono l'etichetta discografica che ha dato inizio alla carriera di moltissimi artisti. Fu rivoluzionaria?
Sicuramente. Non ci sono dubbi. Avevamo fondato Flora, Fauna e Cemento, poi è stata la volta de Il Volo. Il periodo era quello lì, quello del rock. Era iniziata l'epoca dell'acritico, che poi, purtroppo, è sfociata negli Anni di piombo.
Abbiamo detto di Mogol. Parliamo ora di Lucio Battisti. Cos'è stato per te?
È stato un punto di riferimento fondamentale. Per come scriveva, affiatatissimo con Mogol. Ma poi era un amico. Ci siamo trovati a casa sua a giocare a ping-pong. Ci eravamo comprati due macchine fotografiche di alto livello e grande qualità. Si faceva a gara a chi faceva le foto più belle. Una volta siamo andati a fare un viaggio: io, Battisti, Mogol, Alberto Radius e il padre di Mogol, nel Kosovo, a caccia. Unica esperienza, perchè poi l'ho odiata. Tanto per dire, quanto ero legato a Lucio.
Com'era la Milano della tua giovinezza e della tua crescita artistica? E com'è quella di oggi?
Milano aveva un fermento straordinario. I giovani, musicalmente parlando, volevano cambiare il mondo. La città era un po' il fulcro delle case discografiche e dei locali da ballo. Andavamo a suonare anche al sabato e alla domenica pomeriggio nei locali chiamati batterìe danzanti. Ora Milano si è trasformata completamente. È diventata una città cosmopolita. C'è grande fermento anche oggi, diverso da quello di tanti anni fa. Oggi, nel cosiddetto triangolo della moda, non c'è più nessuno alle dieci e mezzo di sera. Una volta il fermento di cui ti parlavo durava fino a tarda notte. Ma tant'è, è cambiata Milano e molto. Ma tutto sommato mi piace.
È difficile dividersi tra i ruoli di chitarrista, compositore, cantautore e produttore?
Per me è naturale. Da sempre mi è piaciuto lavorare per gli altri. Non ho mai avuto l'ambizione di fare qualcosa per andare in testa alla classifica. Se poi accadeva, tanto meglio. Ma come produttore, ad esempio, il mio scopo era ed è quello di ottenere il meglio dall'artista. Una responsabilità in più, certo. Quindi mi prodigavo, e lo faccio tuttora, per trovare la canzone migliore, l'arrangiamento più adatto.
Ci siamo soffermati sui nomi di Mogol e Battisti. Ora soffermiamoci su di un altro nome che è stato importante per te: quello di Loredana Bertè…
In termini professionali, è stata un'unione che ha dato ottimi risultati: "Dedicato", "E la luna bussò", "In alto mare". Ha funzionato benissimo. Sotto il profilo sentimentale, è stato un rapporto piuttosto complicato. Eravamo nel periodo dei figli dei fiori, dell'amore libero, peace and love, delle comuni. C'era un po' di libertinaggio, diciamo. La cosa, quindi, non è stata così proficua e, se vogliamo, mi dispiace. È stato destino, ecco.
Produttore per Oxa, Mannoia, Goggi, Vanoni. Con Mogol hai scritto due tra le canzoni più popolari: "Vita" per Lucio Dalla e Gianni Morandi e "Varietà" per Gianni Morandi. Ecco, per scrivere una canzone, occorre un'ispirazione, un fatto, una musa, che cosa?
Quello che può suscitare la voglia di scrivere una canzone è sentire un'altra bella canzone. Un esempio: quando ho sentito Mengoni che ha fatto “L'essenziale”, mi sono detto: "Com'è che non è venuta a me questa canzone?". Quando invece, con Loredana, in un locale ho sentito un brano, prodotto da Barry White, sono andato a casa, ho preso la chitarra e ho scritto "In alto mare". Lo stimolo viene dal sentire delle belle canzoni. È un fatto emotivo.
A un certo punto, hai sentito la necessità di registrare un disco in cui ospitare tutti quegli artisti con i quali hai collaborato. Così è nato il progetto “Voci”, “Voci 2”, “Voci e chitarre”…
Anche in questo caso, mi è venuto tutto naturale. Divertirmi, era lo scopo, anche se poi Voci ha venduto 950 mila copie. Sono nato con un gruppo e questo mi ha condizionato: fare sempre qualcosa insieme.
Da anni sei impegnato nella difesa dei diritti d'autore. In un bilancio di oltre 60 anni di carriera, diresti ancora che la musica è stata sempre ed è la tua vita, ma che il tuo riferimento è la famiglia?
Sicuramente la famiglia è fondamentale, elemento prioritario. Per me è stata una conseguenza naturale del mio essere nella musica. Una moglie e due figli, che però non sono applicati, in campo musicale. Oddio, sono contento, perchè come si fa la musica oggi… Fortunatamente, però, c'è stata nuovamente un'esplosione dei live. Molti artisti riempiono gli stadi. Una volta ci sognavamo tutto ciò. Per il grandi eventi, c'era il Palalido di Milano e l'Arena Civica, vale a dire spazi molto più piccoli.
Mario, un'ultima domanda. Avrai sicuramente progetti per il futuro. Quali, in particolare?
Ora ho questo progetto di un concorso che si tiene alla Siae, “Campusband”, dedicato agli studenti appassionati di musica, perché io sono nato così. Quindi un concorso per loro, con finale l'11 agosto, al Castello Sforzesco. Poi, nel cassetto, ho pronte delle canzoni, ma da far uscire al momento giusto. Qualche mio brano è stato nel cassetto anche per anni, per poi uscire allo scoperto ed avere un gran successo. Un esempio? "Vita" è rimasta nel cassetto per 6 anni. L'ho proposta sia a Fiorella Mannoia che a Mina. Meno male che hanno detto di no, perchè poi è arrivato un certo Lucio Dalla.