Mancano medici in italia, Guido Bertolaso a Fanpage: “Il numero chiuso all’università non è il problema”
Quello della carenza dei medici e degli infermieri è un problema con cui tutte le regioni italiane devono fare i conti. In Lombardia sono molti i concorsi che vanno deserti o in cui si presentano molte meno persone dei posti messi a bando. Questo dimostra che il problema, almeno in questo momento, non è la volontà delle Regioni di assumere nuovo personale. Ma è la mancanza di professionisti che facciano questo lavoro, soprattutto nel pubblico impiego. Per l'assessore al Welfare di Regione Lombardia non è, però, il numero chiuso all'università il vero problema, come sostengono altri governatori. Guido Bertolaso spiega a Fanpage.it da dove nasce il problema, partendo dalla sua esperienza di medico, e cosa sta facendo per risolverlo.
Da cosa dipende la carenza di medici?
Il problema viene da lontano: ricordo bene che, quando mi sono laureato in medicina, venivamo criticati come nazione perché si sosteneva che in Italia ci fosse un rapporto medico-paziente troppo elevato. Nel senso che sembrava ci fosse, se non ricordo male, un medico ogni 4-500 abitanti. Certamente è diverso il problema degli infermieri, perché abbiamo sempre avuto più medici rispetto agli infermieri che servivano.
Ricordo che le istituzioni finanziarie scrissero una lettera al governo tecnico di allora, dove dissero di tagliare tutte le situazioni che potevano tagliare e di non assumere più nessuno. È avvenuto il solito taglio lineare che, di fatto, ha decapitato anche la medicina e la sanità italiana. I medici sono andati in pensione, non sono stati sostituiti e adesso ci stupiamo che abbiamo pochi medici e pochi infermieri.
Quindi c'è stata una pessima programmazione, stipendi da fame e la volontà di risanare i bilanci sulla pelle della gente, che è sempre sbagliato. Il numero chiuso, francamente, non è mai stato un problema.
Cosa possono fare le Regioni per colmare i vuoti di personale?
Bisogna puntare molto su quelli che sono gli incentivi: penso, ad esempio, agli asili nido degli ospedali. Quanti infermieri e quanti medici lasciano la professione perché hanno problemi in famiglia? Penso anche a modalità di trasporto più agevolate; alla possibilità di garantire alloggi decorosi e decenti a prezzi accessibili, magari nell'ambito delle tante organizzazioni che se ne occupano, sia di carattere regionale che di carattere comunale che di altro genere.
Penso quindi a una serie di incentivi che possono sicuramente invogliare di più, anche con la prospettiva di un progetto vero. Quanti medici oggi lasciano gli ospedali perché manca un progetto nella struttura dove loro stanno lavorando? Vedono arrivare i medici delle cooperative, vedono i ‘gettonisti'.
In ultimo dobbiamo aumentare gli stipendi ai medici e agli infermieri. È ovvio che è un problema di carattere nazionale, ma anche a livello regionale possiamo fare molto. Alla fine dell'anno scorso abbiamo già garantito quegli incentivi per chi lavora nelle situazioni più difficili, soprattutto a livello di pronto soccorsi. Adesso ci stiamo attrezzando per arrivare alla fine dell'anno con proposte molto interessanti per gli anni a venire per chi vorrà lavorare nella sanità pubblica qui in Lombardia. Ma ne parleremo fra un paio di mesi.
Giustamente ha citato i pronto soccorsi e in effetti ci sono alcune specialità che sono ancora meno preferite rispetto ad altre. Bastano gli incentivi economici o c’è bisogno anche di altro?
È chiaro che nel mio DNA e per quella che è stata la mia avventura di vita professionale chi si occupa di medicina di emergenza urgenza è ‘il mio eroe'. Non solo però per quella che è la sfida quotidiana, visto che nell'arco dei turni di lavoro si ritrova con le situazioni più incredibili e più imprevedibili. Altri invece, più metodici, preferiscono seguire una routine che sicuramente al pronto soccorso non può esistere e questo fa parte delle scelte di vita.
Non è giusto, però, penalizzare chi lavora al pronto soccorso con stipendi che sono uguali a quelli di colleghi che magari lavorano negli ambulatori sei/otto ore al giorno in situazione assolutamente tranquilla e protetta. Mentre il pronto soccorso è una trincea, lo è sempre stata e oggi ancora di più, perché assistiamo sempre di più a un aumento della violenza e delle aggressioni.
Da un lato bisogna quindi rinforzare le attività di vigilanza e di presenza delle nostre forze dell'ordine negli ospedali. Dall'altro alcuni pazienti hanno reazioni violente perché magari aspettano da 15 o 20 ore di essere visitati e quindi non possiamo neppure biasimare le loro intemperanze. Ma dobbiamo intervenire per ridurre questi tempi di attesa.
Per gli infermieri, in particolare, è stato sperimentato il tentativo di reclutarli anche dall'estero. Pensa che possa essere una soluzione? Perché poi si è un po’ fermata questa attività?
Non si è fermata questa attività, è un problema di organizzazione e di programmazione. Se io avessi abbastanza tempo, andrei in molti Paesi latino-americani, organizzerei scuole di formazione per infermieri, a patto che poi fossero disposti a trasferirsi qui in Italia per un certo periodo. Purtroppo ho molte altre cose da fare, ma questa può essere sicuramente una prospettiva.
Il rapporto medico-infermiere in Italia è sempre stato sbilanciato a favore dei medici, molto più numerosi rispetto agli infermieri. Le ragioni sono molto semplici: gli infermieri guadagnano 1400-1500 euro al mese per fare un lavoro da eroe, spesso anche in situazioni drammatiche. Ho visitato personalmente alcuni centri dove vengono ricoverati detenuti con problemi psichiatrici, che sono gestiti dalla sanità pubblica e non dal ministero della Giustizia. Chi è che va a lavorare in mezzo a pazienti psichiatrici che magari erano in carcere perché avevano trucidato moglie e tre bambini? Chi è che va ad assistere persone di questo genere per 1500 euro al mese? Per queste persone ci vorrebbe la medaglia d'oro oppure cos'altro?
È chiaro che quindi il problema dell'individuazione e del reclutamento del personale infermieristico è un problema che deve essere affrontato aumentando sicuramente lo stipendio, ma sappiamo che sarà comunque molto difficile perché è una professione che in Italia non ha grandissimo appeal. E quindi bisogna anche cercare all'estero, però programmandolo. Se io faccio bandi di concorso all'estero senza preoccuparmi del livello di preparazione, di formazione, di esperienza, di conoscenza della nostra lingua e di tanti altri fattori, diventa difficile e rischioso prendere personale dall'estero. Se si fa una programmazione come vorremmo cercare di fare qui in Lombardia non dico che domani mattina abbiamo risolto il problema, ma in una prospettiva di cinque anni sicuramente ci riusciamo.