“Mamma uccisa dai maltrattamenti del compagno, non ho mai avuto giustizia”: parla il figlio di Tina Giordano
Dopo cinque anni, ancora non si dà pace il figlio di Annunziata Giordano, detta Tina. La donna, 54 anni, è morta il 25 settembre del 2019 nell’ospedale San Carlo di Potenza per un’emorragia cerebrale sulle cui cause, a oggi, ancora non si è fatta la giusta chiarezza. Ma non ha dubbi il figlio Luca Mantaque, che da anni chiede giustizia per la madre. "Mamma è morta per i maltrattamenti che subiva dal compagno dell'epoca", parla oggi a Fanpage.it. "È venuta a mancare dopo due settimane di coma, a seguito di un forte trauma cranico. E non era neanche il primo".
Il convivente Luigi Costa, 53enne di origini siciliane subito indagato per maltrattamenti in famiglia aggravati dall'evento morte, si è tolto la vita prima di arrivare a sentenza, nel dicembre del 2022. E così, a oggi, non c'è nessun colpevole per la morte di Tina Giordano. "Se ne è andata per un'emorragia cerebrale, l'hanno trovata con un vasto ematoma alla testa", spiega Luca. Costa, agli operatori del 118 di Policoro, quella sera aveva detto: "È andata a dormire a letto, la mia compagna non si sveglia più".
"Poco prima che morisse, le indagini hanno fatto emergere più accessi al Pronto soccorso da parte di mia madre, sempre per trauma cranico", prosegue il racconto del figlio Luca. Uno dei traumi provocherà una frattura. L'ultimo sarà fatale. "Lei, come tante vittime, si vergognava e ai sanitari raccontava ogni volta di essere caduta dalle scale, di essere scivolata sul pavimento bagnato, di aver battuto la testa senza accorgersene…e durante questi controlli lui la accompagnava, non la mollava mai. Cercava continuamente di condizionarla, di entrare anche in sala visite per controllarla a vista".
Strane e continue cadute. Insieme a lividi, botte, escoriazioni e un comportamento sempre più strano da parte della donna, improvvisamente chiusa in sé stessa dopo l'unione con quell'uomo conosciuto su un sito di incontri. I vicini li sentono litigare spesso, tra urla e colpi fortissimi. Ai conoscenti, appunto, racconta che probabilmente è tutto frutto delle sue "solite cadute".
"Ho saputo dopo un po' che la situazione era così grave, lei ovviamente non me ne parlava. Vivo da più di quindici anni in Brianza, ci sentivamo per telefono: a mettermi in allarme è stata la nonna paterna, preoccupata dal fatto che solo dopo qualche giorno di frequentazione quest'uomo avesse già stabilito la residenza in casa di mia madre, portandola in Comune a firmare tutte le carte".
Segnali già evidenti che qualcosa non va. "Lei era cambiata. Sentivo sempre una voce in sottofondo, come avesse un suggeritore che bisbigliava costantemente al suo fianco. Chiamate che prima duravano almeno mezzora improvvisamente erano diventate brevissime: tagliava sempre corto, cercava di mettere giù dopo pochi secondi, era a disagio davanti alle domande che le facevo. Era completamente manipolata da quell'uomo". Un uomo che ha approfittato di una donna sola e fragile, e del suo desiderio di rifarsi una vita dopo anni dal divorzio.
La battaglia di Luca, nonostante tutto, è andata avanti. "Ho sporto diverse denunce, mi sono rivolto anche al Garante di Regione Lombardia che è stato l’unico ad aiutarmi, interfacciandosi con la Procura che al tempo indagava. Per questo mi dispiace sapere che ora vogliono, di fatto, abolirlo, accorpandolo a quello per l’infanzia. Trovo sia un grave errore".
E ancora. "Da quando mia madre è morta mi sono battuto perché nei confronti di quest'uomo venisse applicata qualche misura restrittiva, anche tenendo conto del suo stile di vita e del suo essere violento", si sfoga oggi. "Non a caso è scappato a Roma dopo il fatto, lasciando perdere le sue tracce. Bivaccava per le strade e per alloggi di fortuna, non si presentava nemmeno alle udienze in tribunale".
Ma non solo. Durante i sopralluoghi degli inquirenti un grosso fermaporta di metallo, che alla prova del luminol aveva evidenziato tracce biologiche di colore rosso appartenenti alla vittima, viene inspiegabilmente lasciato a margine delle indagini. "Dopo aver analizzato la scena del crimine la Scientifica ha disposto in tutta fretta il dissequestro, nonostante l'abitazione di mia madre a Policoro fosse ormai destinata a rimanere vuota, visto che io abito ormai in Lombardia. Gli agenti mi hanno poi convocato e ordinato di buttare tutti gli oggetti casalinghi contaminati con il luminol, fermaporta compreso, perché potenzialmente cancerogeni", sempre il racconto del figlio.
"Così, senza sapere che quel fermaporta era probabilmente stato usato per colpire in testa mia madre, lo butto insieme al resto nella spazzatura". La Procura, dopo mesi, chiede infatti conto del pesante oggetto metallico. Ma ormai quel fermaporta non c'è più. "Era una prova fondamentale, finita nell'immondizia". Un reperto che molto probabilmente sarebbe stato capace di imprimere una svolta alle indagini, ormai concluse. "Ma io, dopo anni, sto cercando ancora giustizia per lei. Non mi fermo qui".