Costringe la figlia a non superare i 47 chili: “Sui ragazzi si proiettano le fragilità dei genitori”
Un regime alimentare ferreo e restrittivo, il controllo del peso quotidiano, il "divieto" di superare i 47 chilogrammi. Sono le condizioni a cui, nel 2019, una giovane comasca sarebbe stata sottoposta dalla madre che ieri, 24 gennaio, è stata condannata in primo grado per maltrattamenti.
Una vicenda che pone la necessità di capire meglio non solo il mondo degli adolescenti ma anche quello dei loro genitori. Per farlo abbiamo chiesto di commentare questo caso a Leonardo Mendolicchio, medico psichiatra psicanalista, autore, tra gli altri, del libro ‘Fragili. I nostri figli, generazione tradita‘ (Solferino editore, 2023).
Dottor Mendolicchio, come commenta questo fatto?
È un caso che ci dimostra come spesso nelle famiglie italiane le ossessioni delle madri o dei padri poi si proiettano sui figli. Probabilmente c'era una questione nella testa di questa mamma sul tema del peso che veniva agita nei confronti della figlia. Non senza traumi, ma questa è una dinamica abbastanza classica.
Cosa intende?
Mediamente un genitore, se non ha gli strumenti emotivi psicologici per capire alcune cose, ha la tendenza a proiettare sui propri figli questioni che sono le proprie. E questo può diventare pericoloso e traumatico per bambini e adolescenti. Per cui, se io ho l'ossessione di un'alimentazione di un certo tipo e del peso di un certo tipo, perché è una mia questione, poi pretendo che questa stessa priorità diventi quella di mia figlia. Ma se per mia figlia invece non è così, essere obbligata a pesare 47 chili diventa un trauma, se non un maltrattamento. E giustamente il giudice lo ha qualificato come tale.
La difesa sostiene che questa madre agisse "per il bene della figlia", affetta da problemi alla schiena e che fossero i medici ad aver consigliato di non aumentare di peso.
Innanzitutto non è una madre che orienta le abitudini alimentari della figlia o il peso della figlia in modo così pervasivo e così costante, anche se c'è un'indicazione medica. Se c'è una paura oggettiva rispetto ai bisogni di salute, si affida questo tipo di problema o di paura a persone competenti, che sanno definire i rischi.
Come può essere una mamma a stabilire che il giusto peso per sua figlia, per evitare danni alla salute, sia 47 chili? I genitori devono sapere che non sono loro che impartiscono procedure, schemi terapeutici o percorsi di cura senza confrontarsi con i medici. Il genitore si preoccupa per la salute del figlio, ma demanda a tecnici competenti la gestione della stessa.
In questo caso, quindi, andiamo al di là del conflitto adolescenziale tra figli e genitori?
Decisamente. Come si può immaginare che il rapporto tra un adolescente e un genitore sia incentrato su un obbligo a pensare in un certo modo? È chiaro che c'è una conflittualità nel rapporto genitoriale, soprattutto nella fase dell'adolescenza. Questa conflittualità però non si trasforma in una vessazione da parte del genitore rispetto al figlio.
Mi sembra invece di capire, pur non potendolo dire con certezza, dal momento che non l'ho mai vista, che invece c'era un aspetto molto ossessivo da parte di questa donna. La conflittualità tra adolescente e genitore è una cosa abbastanza connaturata alla fase adolescenziale, ma questa conflittualità quasi mai, per fortuna, determina una tale rigidità da parte del genitore nei confronti del figlio.
Quali traumi potrebbero essere conseguenza di quello che questa ragazza ha vissuto a 16 anni?
Sicuramente avrà esperito un amore genitoriale materno molto legato a questa rigidità, a paure e ansie. E una tendenza così categorica da parte della madre sarà la prima questione da affrontare, distinguere cioè l'amore dall'obbligo.
Così come immagino che questa ragazza dovrà confrontarsi e ritrovare un equilibrio con una sensibilità propria sul tema del corpo e del peso.
Tendenzialmente il rapporto con il cibo e con il corpo dovrebbe essere il più possibile naturale, sperimentare a 16 anni una simile rigidità significa essere privati della possibilità di vivere il cibo nella sua dimensione ludica e sociale. Tutto questo per dire che immagino che questa ragazza avrà dovuto e starà affrontando tutta una serie di fantasmi che si sono strutturati anche alla luce di questa esperienza.
Si tratta di un caso isolato?
Non direi proprio. So benissimo, per la professione che faccio, che spesso il ruolo genitoriale travalica la questione di ciò che è giusto e di ciò che è sano e dalle paure che un genitore ha rispetto ai propri figli possono nascere ossessioni e vessazioni.
Molti genitori proiettano sui loro figli le loro angosce e lo strumento che utilizzano per risolvere queste angosce è l'iper controllo. Ne scrivo anche nel mio ultimo libro, di come appunto spesso immaginiamo i figli come un'estensione narcisistica della nostra vita e su di essi proiettiamo tutte le cose che non siamo riusciti a fare, compreso controllare il cibo e il corpo.
E come si esce da questa situazione?
Quando noi genitori, parlo da padre, iniziamo a vedere il malessere dei nostri figli, dobbiamo sempre domandarci qual è la nostra quota parte di questo malessere. Ed è chiaro che un genitore ossessivo non può non riconoscere nella propria ossessività il malessere dei figli. Il consiglio è di non sentirsi mai, mai, mai scevri e non coinvolti nel malessere dei nostri ragazzi. Dobbiamo avere il coraggio di sviluppare una pedagogia della responsabilità, anche se questo ci spaventa.
Sono temi che ha affrontato nel suo ultimo libro, ‘Fragili'. Da dove nasce l'idea?
Nasce dall'aver raccolto durante la pandemia tutta una serie di testimonianze da parte di adolescenti che stavano malissimo e che nel raccontarmi il loro malessere mi hanno sbattuto in faccia molte verità, tra le quali quella che loro vedono il mondo degli adulti come poco presente, distratto, bugiardo e poco consistente. Da padre, oltre che dal terapeuta, mi sono domandato che tipo di mondo abbiamo creato per questi ragazzi?
A quale conclusione è arrivato?
Che dobbiamo partire dalle fragilità dei nostri figli per riconoscere le nostre e costruire un ponte tra generazioni. La cosa più importante è guardare la fragilità non come limite dei nostri adolescenti, ma come occasione per vedere in noi le nostre debolezze e in questo riconoscimento speculare tornare in contatto in modo concreto.