Il San Raffaele e l’esame da 2.500 euro sponsorizzato da Rosa Chemical: come funziona la pubblicità per gli ospedali
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Un caso mediatico che dai social ha raggiunto addirittura i banchi di Montecitorio. È stata infatti oggetto di un'interrogazione parlamentare da parte della deputata M5S Marianna Ricciardi la polemica che ha travolto Rosa Chemical e l'ospedale San Raffaele dopo che il trapper, di recente, ha sponsorizzato attraverso le proprie storie Instagram un esame diagnostico da oltre 2.500 euro. Si tratta del check-up Full Body Scan, “un esame molto innovativo che fa solo questo ospedale in questo momento” ha scritto il rapper ai suoi quasi 400mila seguaci, con tanto di hashtag #ADV. “Dura solo 30 minuti e tutto il corpo viene scansionato con altissima precisione. Qualsiasi patologia o lesione in qualsiasi parte del corpo può essere evidenziata, anche se molto piccola”.
Ma come funziona, in questi casi, la pubblicità sanitaria? Il messaggio di Rosa Chemical può essere considerato "comunicazione corretta", come dichiara l'ospedale privato, o "pubblicità ingannevole" come sostiene l'onorevole Ricciardi ("Nel suo messaggio pubblicitario, il rapper sostiene che ‘qualsiasi patologia o lesione in qualsiasi parte del corpo può essere evidenziata, ma ovviamente ci sono diverse malattie mortali e prevenibili che questo esame non può evidenziare", le sue parole)?
Ha fatto discutere il caso che ha coinvolto l'ospedale milanese San Raffaele, che attraverso i social ha più volte sponsorizzato un esame diagnostico da 2.500 euro. Ma una struttura privata può pubblicizzare i propri servizi sanitari?
Il tema della “comunicazione” in ambito sanitario è sicuramente molto delicato, dal momento che tratta di servizi essenziali e
di aspetti sensibili come le cure e la salute.È inoltre caratterizzato da cautele e attenzioni normative che rendono la realizzazione di nuove strategie di comunicazione e informazione dell’utenza meritevoli di particolari attenzioni. Con riferimento al primo quesito, in ogni caso, la risposta è affermativa: una struttura sanitaria ha la possibilità di reclamizzare i propri servizi come previsto dal D.L. n. 223/2006 – convertito dalla legge n. 248/2006, anche noto come Decreto Bersani.
Quali sono i limiti?
Una peculiarità della pubblicità in ambito sanitario è che il suo solo scopo deve essere quello di informare l'utenza sulle caratteristiche del servizio, le competenze dei professionisti e i costi delle prestazioni con trasparenza e veridicità. Dunque, la pubblicità sanitaria deve avere dei contenuti che siano in grado di consentire una scelta libera da parte dell'utenza su “se” e “come” rivolgersi a una struttura sanitaria senza creare situazioni di ricorso improprio alle cure, nonché di rispettare una concorrenza leale tra gli operatori economici (sanitari) che non dovrebbero potersi “fare spazio” con comunicazioni non idonee a dare delucidazioni.
Quali sono i divieti, invece? Insomma, cosa proprio non è possibile pubblicizzare per una struttura sanitaria privata?
La disciplina di settore prevede un insieme di divieti da rispettare per realizzare una corretta pubblicità sanitaria a tutela, come appena detto, dell'autodeterminazione del paziente. Innanzitutto, l'art. 1, c. 525, della legge n. 145/2018 esclude il ricorso a elementi "attrattivi e suggestivi", ossia capaci di condizionare l'utente superando la sfera razionale e dando una sollecitazione all'acquisto impropria.In tal senso, la norma cita espressamente gli sconti e le promozioni tra gli elementi attrattivi e suggestivi vietati. Il Codice di deontologia medica, poi, esclude il ricorso a informazioni denigratorie, non veritiere e ingannevoli (art. 56), a notizie che possano generare aspettative o timori infondati (art. 55) e a forme di patrocinio di prodotti e servizi di qualsiasi natura con il fine di consentirne la commercializzazione (art. 57).
In questo caso, si tratta di un esame di prevenzione a scelta. Si possono pubblicizzare anche altri tipi di analisi e/o prestazioni curative necessarie?
Nella comunicazione sanitaria la struttura può informare il pubblico su tutte le prestazioni che eroga. Se la struttura offre prestazioni sanitarie che hanno finalità preventiva, ben può inserirle nelle proprie pubblicità informative.
È lecito pagare un personaggio famoso (in questo caso è il trapper Rosa Chemical, che su Instagram posta poi una storia con l'indicazione #ADV) per mostrare l'attività in questione ai giovanissimi che seguono il cantante sui social? È possibile, in generale, creare collaborazioni con un testimonial pagato e non volontario?
Faccio un passo indietro a proposito dell'influencer marketing. L'influencer marketing è regolato da diverse disposizioni, come la Digital Chart dell'Istituto Autodisciplina Pubblicitaria (I.A.P.), che però non trattano espressamente della pubblicità sanitaria. Al momento, dunque, non ci sono "permessi" o limiti definiti in modo chiaro. Ad ogni modo, il divieto di uso di elementi attrattivi e suggestivi (l. n. 145/2018) apre a una riflessione sulla possibilità dell’influencer marketing di potersi conformare alla natura esclusivamente informativa della pubblicità. Sul punto, sarebbe consigliabile attendere le pronunce degli Enti di riferimento del settore come gli Ordini professionali e l'AGCOM, che possono dare preziose indicazioni sull'eventuale effetto attrattivo e suggestivo degli influencer in sanità. Riguardo al pagamento dell’influencer non può dirsi un elemento illecito di per sé in ottica di una corretta informazione sanitaria. Infatti, come appena visto, gli eventuali profili di irregolarità investono i contenuti e la loro possibile suggestività.
Esistono restrizioni particolari per la pubblicità sanitaria sui social? Quali sono le norme?
La pubblicità sanitaria può essere diffusa "con qualunque mezzo", come prescritto dall’art. 2 del Decreto Bersani e dall’art. 56 del codice deontologico e, dunque, anche tramite social media.I limiti da rispettare sono comunque quelli della legge n. 145/2018 e del codice deontologico che si applicano a prescindere dal mezzo di comunicazione prescelto.
Può incidere, nel caso di una prestazione sanitaria sponsorizzata, l'aspetto economico? Si possono cioè pubblicizzare anche esami molto costosi come il Full Body Scan, che parte dai 2.500 euro?
Il costo del servizio è uno degli elementi legittimi della pubblicità sanitaria, così come confermato dall'art. 2 del Decreto Bersani. L'importanza della tariffa non è necessariamente indice di scorrettezza. Dal punto di vista deontologico, però, la reclamizzazione dei costi non è sempre particolarmente apprezzata e, dunque, è bene prestare attenzione alle modalità con le quali si sceglie di comunicare i prezzi. Ad esempio, il dato economico non dovrebbe essere quello prevalente sulle altre informazioni indicate nella pubblicità: è certamente auspicabile una equivalenza tra i vari elementi. Ancora, i costi comunicati devono essere veri e trasparenti e, quindi, devono essere presentati in modo chiaro e inequivocabile senza diciture che possano confondere l'utente.
Nel privato, ci sono differenze tra un grande ospedale come il San Raffaele e il piccolo studio per quanto riguarda divieti e limiti della pubblicità sanitaria?
No, la disciplina è uniformemente applicabile a tutte le tipologie di strutture sanitarie, compresi gli
studi professionali.
E una struttura sanitaria pubblica? Cosa può pubblicizzare, e cosa no?
L'art. 56 del codice di deontologia medica si applica sia alle strutture private che a quelle pubbliche. Anche la struttura pubblica, dunque, può svolgere pubblicità informativa sanitaria nel rispetto dei medesimi principi che devono rispettate gli enti di natura privata, ossia quelli di tutela della libertà di scelta dell'utente e di impedimento di un ricorso indebito alle cure.