La miniera di Bitcoin a due passi dal Duomo di Milano, tra crisi energetica e impatto ambientale
In zona Moscova, a Milano, gli unici a indossare tute e caschetti sono gli operai che sistemano i sotto servizi nelle vie laterali. Persino i postini hanno un fare elegante, tanto nel passo quanto nell’abbigliamento, spesso in tinta con i pacchi che lasciano negli androni dei palazzi. Eppure, con la ventiquattrore in una mano e l’ipad nell’altra, anche qui si va a lavorare in miniera.
Siamo in piazzale Biancamano, 8. L’ingresso è quello di un comune spazio di coworking, ma già superata la porta della reception l’aria si fa più fredda e i suoni meno urbani. "Le macchine hanno bisogno di refrigerazione costante, se si surriscaldano troppo vanno in blocco", spiega a Fanpage.it Elio Viola, avvocato 35enne che nel 2018, insieme al broker Matteo Moretti, ha fondato Criptomining, la prima società per estrarre criptovalute registrata alla Camera di Commercio meneghina. "Prima abbiamo studiato il settore, siamo stati in Svizzera e in Cina – racconta Viola -. Allora in Italia questa attività era fatta solo a livello domestico, negli scantinati. Noi abbiamo creato una srl e abbiamo voluto farlo nella capitale della finanza italiana".
Anche la miniera di piazzale Biancamano, comunque, non tradisce l’atmosfera buia e umida impressa nell’immaginario collettivo: una stanza di pochi metri quadrati, dove su uno scaffale impolverato lampeggiano decine di scatole luminose collegate a un computer portatile. I fili elettrici attorcigliati a terra lasciano posto, sulle pareti, a tubi di areazione, il cui rumore, unito a quello delle ventole, impedisce di parlare con un tono di voce normale. Ai piani alti, invece, ci sono gli uffici, ed è qui che l’avvocato ci spiega come è nata la miniera. E soprattutto, come sopravvive oggi.
"Siamo partiti con una decina di macchine. Allora erano i Rig, composti da schede video, processori e alimentatori installati all’interno di scatole di alluminio. L’investimento iniziale è stato di circa 70-80mila euro, ma quasi subito gli apparecchi di mining si sono evoluti e sono arrivati gli Asic, cioè computer assemblati all’interno di scatolotti di alluminio molto più piccoli e performanti. Già in quella fase abbiamo dovuto raddoppiare il capitale investito".
Una questione di energia
Sul finire degli anni ’10 le criptovalute stavano conquistando il mondo, Italia compresa: "Se nel 2012 un bitcoin valeva 200 dollari, nel 2019 era arrivato a quota 10mila. Ci sono stati tanti giovani investitori che ci hanno creduto e si sono ritrovati con un patrimonio immenso". Ma, come per tutti i meccanismi di speculazione finanziaria, è una ruota che gira: "La vera crisi è iniziata nel 2020 – ricorda Viola -, quando il valore dei bitcoin è sceso a 2900 dollari: dicevano che questa moneta era finita e invece nel 2021, complice anche l’aumento dei risparmi per i ripetuti lockdown, c’è stata un’impennata fino a 67mila dollari a bitcoin". Adesso il valore è tornato a scendere (quasi 31mila euro e 35mila dollari), ma a preoccupare i miners non è tanto l’andamento delle criptovalute, quanto la gestione delle miniere, sempre più onerosa e ostacolata dalle autorità.
"Il problema maggiore – spiega Viola – è sempre stato il costo dell’energia elettrica, infatti il mining si è diffuso soprattutto nei Paesi in cui le tariffe sono più basse: Cina, Russia, Islanda e Paesi Bassi". E, più recentemente, il Kazakistan. Va da sé che con il super rincaro degli ultimi mesi il destino delle miniere sembra segnato: "Noi abbiamo la fortuna di avere un socio che, attraverso il suo impianto fotovoltaico, ci fornisce energia a cifre calmierate, ma molti nostri colleghi hanno dovuto chiudere: se il costo per il consumo non riesce a essere compensato dal rendimento, non ha senso andare avanti".
La questione ambientale: l'Europa prova a limitare l'estrazione delle criptovalute
E poi c’è anche la non meno rilevante questione ambientale. Le macchine per estrarre criptovalute funzionano h24 e consumano una enorme quantità di energia: si è stimato, per esempio, che l’industria cinese del mining, oggi molto più limitata rispetto agli albori, potrebbe arrivare nel 2024 a consumare la stessa quantità di energia di uno Stato come l’Italia. Per questo diverse istituzioni, da ultima la Commissione europea, stanno valutando di porre limitazioni. Nell’Unione, in particolare, è stata avanzata dal vice presidente dell'Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati (Esma), Erik Thedéen, la proposta di vietare in Europa il tradizionale meccanismo di estrazione delle criptovalute, detto "Proof of work". "Ma – sottolinea Viola – alla fine a decidere saranno gli investitori. Non credo che il nostro continente sia di fronte a un rischio ambientale per il mining, visto che l’attività è ancora poco diffusa. E in ogni caso la soluzione non è limitarla, ma trovare meccanismi di compensazione, per esempio usare le miniere per assorbire l’energia in eccesso prodotta dalle centrali idroelettriche. Noi, insieme alla stratup Treedom, vogliamo impegnarci a piantare alberi in giro per il mondo, in rapporto alla quantità di CO2 che produciamo".
L’energia, però, non è il solo problema di un minatore: "Quando inizi questa attività – dice il cofondatore di Criptomining – nessuno ti dice che le macchine che acquisti saranno da sostituire nel giro di pochi mesi, invece è così. Gli apparecchi che abbiamo comprato nel 2019 a 1400 euro l’uno ora sono fermaporte". Per diverse ragioni: "Chi produce queste piattaforme ha deciso di dimezzare da un giorno con l’altro il rendimento delle macchine, anche per evitare una eccessiva speculazione. Così se io parto con un sistema che produce un bitcoin al mese, la stessa strumentazione dopo un po’ di tempo arriva a estrarne solo mezzo nello stesso arco temporale. Ma i costi rimangono gli stessi". Fattore a cui si aggiunge l’aumentata complessità dell’algoritmo: "In pratica hai macchine usurate, e quindi meno potenti, che devono però superare meccanismi più difficili per estrarre criptovalute. E oggi gli Asic costano anche 4.500 euro l’uno".