La madre di Lidia Macchi dopo il risarcimento a Stefano Binda: “Anche io ho diritto di denunciare lo Stato”
L'assoluzione in via definitiva dall'accusa di omicidio e un risarcimento per ingiusta detenzione di oltre 300mila euro. "Sì, ho saputo. Che cosa vuole che le dica? Ormai sono un’anziana signora, vivo da sola… Così, a pelle, mi verrebbe da dire che a questo punto ho tutto il diritto anch’io di denunciare lo Stato come hanno fatto i suoi avvocati".
Così la mamma di Lidia Macchi, la ragazza stuprata e assassinata il 5 gennaio del 1987, commenta il maxi indennizzo riservato a Stefano Binda, negli anni solo e unico imputato per la morte della figlia. Parole amare, di profonda delusione.
Impossibile, per lei, scrivere ancora la parola fine. Non certo fine al dolore, certo. Ma la ferita di quella notte sanguina come il primo giorno anche dopo decenni, perché chi ha ucciso Lidia, dopo 35 anni, ufficialmente non ha ancora un nome. E potrebbe non averlo mai.
I preziosi reperti distrutti durante le indagini
"Ho diritto anche io di denunciare lo Stato non per l’ingiusta detenzione, ma perché nel mio caso è stato un giudice che con noncuranza ha mandato distrutti reperti. Reperti in teoria in custodia dello Stato e che sarebbero stati indubbiamente utili a risolvere il caso". Sì, perché, nei primi anni Duemila, il gip del Tribunale di Varese prestò il consenso alla distruzione di tutti gli indumenti della vittima. E soprattutto dei vetrini con il liquido seminale che, alla luce delle nuove tecniche scientifiche di oggi, avrebbero molto probabilmente consentito di individuare l’assassino di Lidia.
Il caso potrebbe essere riaperto?
Il caso, però, è formalmente chiuso. Con la conclusione dell'iter processuale che ha coinvolto Stefano Binda, al tempo amico e compagno di classe di Lidia, si arriva all'ultima pagina della storia. O forse no?
"Penso che si potrebbe ripartire dai peli e i capelli rinvenuti nella zona pubica di Lidia durante l’accertamento peritale eseguito dall’anatomopatologa Cristina Cattaneo. Formazioni pilifere che non appartengono né a Lidia né ai suoi familiari, né al personale dell’obitorio e delle pompe funebri che entrarono in contatto con la salma", ha dichiarato a La Prealpina il legale della famiglia Macchi, Daniele Pizzi. Del resto, ricorda l'avvocato, l'hanno scritto gli stessi giudici in una sentenza. "Con l’aiuto della scienza le spoglie di Lidia hanno parlato. I resti nella zona pubica hanno conservato preziose tracce".
La ricerca della verità, ancora ignota dopo 35 anni, potrebbe ripartire da qui?