La figlia di una vittima del Covid a Bergamo: “Fa male sapere dall’inchiesta che tante persone potevano salvarsi”
"Adesso finalmente verrà a galla la verità. E daremo giustizia alle tante vittime". A parlare è Lidia Poli, 46 anni, abitante di quella zona della Bergamasca che, tra fine febbraio e inizio marzo del 2020, viene devastata dalla prima ondata pandemica di Covid 19.
Sono le prime fasi del contagio, c'è già stato il paziente zero di Codogno e la zona rossa del Lodigiano con l’arrivo dei militari a presidiare i confini, le strade deserte dove corrono solo le ambulanze e la gente chiusa in casa. Gli ospedali sono in preda al panico, e i reparti di Pronto soccorso si riempiono ora dopo ora di pazienti con problemi respiratori: la maggior parte, con una strana polmonite interstiziale bilaterale.
Così, il 3 marzo 2020, l’Istituto Superiore di Sanità chiede che anche Nembro e Alzano Lombardo vengano dichiarate zone rosse. Ma, nonostante sia già tutto predisposto, né il Governo né Regione Lombardia autorizzano la chiusura.
A far luce sulla vicenda, adesso, ci pensa un'inchiesta durata tre anni e condotta dalla Procura di Bergamo. La mancata dichiarazione di zona rossa e tanti altri errori compiuti in quel periodo e in quella zona, secondo il procuratore Antonio Chiappani, avrebbero infatti causato "migliaia di morti che si potevano evitare".
Tra di loro c'era anche Loretta, 67 anni, la mamma di Lidia. "Nessuno me la potrà ridare indietro. Ma finché ci raccontiamo che è andato tutto bene, che non si poteva fare altrimenti, non andiamo da nessuna parte". Oggi, insieme ai familiari delle altre vittime del 2020, combatte perché non si spengano i riflettori su quel momento. Sono riuniti nel comitato "Sereni e sempre uniti – Famigliari delle Vittime Covid-19". Associazione che, proprio questa mattina, ha presidiato l’ingresso del Palazzo di giustizia di Bergamo.
Cos'è successo, nel marzo del 2020?
Mia mamma ha avuto i primi sintomi verso la fine di febbraio. La diagnosi era di polmonite, ma non si pensava ancora al Covid. Il 4 di marzo, nonostante due cicli di antibiotici e il cortisone, la saturazione ha però iniziato ad abbassarsi: il nostro medico ci ha quindi consigliato di recarci al Pronto soccorso di Piario, per approfondire la situazione con una lastra. Arriviamo lì e ci troviamo davanti una situazione inverosimile… si capisce subito che c'è qualcosa che non va.
Fuori stanno allestendo in fretta e furia il triage, dentro il Pronto soccorso una marea di persone. Tengono mia madre in ospedale e mi dicono: "Siete stati fortunati, abbiamo trovato un posto ad Alzano". Si parlava già di zona rossa, e già pensavo a come poter raggiungere in caso l'ospedale di Alzano. Ma niente. Mia madre va via in ambulanza, entriamo in Pronto soccorso. Anche qui, subbuglio totale.
Arriva quindi il ricovero nell'ospedale di Alzano Lombardo.
Qui la portano in reparto, io la accompagno fino lì. Le appoggio la mano sulla sua, e le dico: "Stai tranquilla mamma, ci vediamo presto. Tra qualche giorno ti riprenderai al meglio". La chiamata arriva alla mezzanotte dell'8 marzo: la mamma non ce l'ha fatta.
Cosa ricordi degli ospedali di Piario e Alzano, in quei giorni?
La sensazione è che stesse succedendo qualcosa al di fuori dalla portata di tutti. Non c'erano mascherine, gli operatori erano sotto stress, le sale d'attesa piene di persone. "È solo un'influenza", dicevano ancora in tanti. Il ricordo di quei momenti è ancora doloroso, soprattutto perché sono state nascoste tante cose. La verità ce la meritiamo tutti.
Cosa è stato nascosto?
Come mai non è stata istituita la zona rossa? Perché prima c'erano i militari, e il giorno dopo sono spariti? Perché è stato sottovalutato così tanto il contagio, dopo mesi di allarme dalla Cina? Come siamo potuti arrivare a questo? A mia mamma chiusa in un sacco, sepolta senza dignità, solamente tre mesi dopo?
Come accogli la notizia della chiusura delle indagini?
Non ringrazierò mai abbastanza la Procura di Bergamo, che ha dato a noi la possibilità di andare avanti e cercare la verità. È la prima istituzione a esserci davvero vicina. Tanti hanno già dimenticato…e invece no. È un primo passo, ma è un passo grandissimo. Non è una vittoria, ma è un grande segno positivo che può condurci alla verità dei fatti. Tutte queste morti hanno bisogno della verità. Noi parenti abbiamo bisogno della verità.
Cosa può dare davvero giustizia alle vittime e ai parenti?
Nessuno mi riporterà indietro la mamma: era insostituibile, una mamma eccezionale, sempre presente, amorevole. Ma è giusto che chi ha sbagliato paghi, questi sbagli non devono più ricapitare. Fa male sapere che tante persone potevano salvarsi, tra cui magari anche la mia mamma. Ma dobbiamo saperlo. E finché si va in giro a dichiarare che è stato gestito tutto al meglio, che è andato tutto bene… non si va da nessuna parte.
Adesso, nell'immediato futuro, cosa succede?
Con gli altri parenti vittime di Covid 19 nella Bergamasca abbiamo formato un bel gruppo di sostegno, ormai siamo una piccola famiglia. Con lo stesso dolore, con gli stessi valori e con la stessa voglia che questa verità esca. La vogliamo, e faremo tutto il possibile perché venga fuori.