La bonifica della Caffaro di Brescia non è mai partita e ora si propongono solo aziende sotto processo
Pierino ha 80 anni ed è un contadino. Vive nelle campagne di Brescia dal primo giorno della sua vita, dal 1942. Quella terra è la sua casa, il suo lavoro, la sua vita. “Noi ci irrigavamo le nostre coltivazioni con l’acqua della falda. Abbiamo sempre fatto così”.
La storia che racconta Pierino a Fanpage.it (scorri l'articolo per vedere la video-intervista) è simile a quella di migliaia di altre persone che per anni hanno vissuto a pochi metri dagli stabilimenti della Caffaro Chimica, respirando un’aria inquinata e bevendo un’acqua contaminata.
“Qualche segno che non era buona c’era”: nella memoria di Pierino sono rimaste impresse le immagini di quei campi che, seppur innaffiati come al solito, dopo due giorni si seccavano. “Una sera è arrivato a casa nostra un veterinario. Ci ha sequestrato tutto il bestiame. Ci ha detto che era stato trovato nel nostro latte il Pcb”.
Pcb: una delle sostanze più pericolose per l'uomo
Policlorobifenili, o meglio, Pcb. Una sostanza non biodegradabile che si accumula negli organismi viventi. La sua pericolosità ha portato l’Organizzazione mondiale della sanità a classificarla come uno dei composti più pericolosi per la salute umana. Cancerogeno, è in grado di provare diversi tumori in una sola persona.
Un prodotto che usciva da quegli stabilimenti della Caffaro Chimica di via Nullo, in mezzo alla città di Brescia, e che nel corso dei decenni è arrivato a inquinare non solo i terreni e le falde, ma anche la catena alimentare.
Come spiegato dallo storico ambientale Marino Ruzzenenti: “Chi viene contaminato con queste sostanze se le tiene per tutta la vita”. E Pierino lo sa bene. A lui hanno diagnosticato cinque tumori e nei suoi nipoti hanno trovato livelli altissimi di Pcb perché beveva il latte delle sue mucche.
Un inquinamento legale fino al 2015
La storia della Caffaro e delle sue sostanze viene portato alla luce nel 2001. Un gruppo di esperti e scienziati hanno esaminato le acque di scarico di quella fabbrica, scoprendo un’enorme quantità di agenti inquinanti: Pcb, diossine, furani, mercurio, arsenico, tetracloruro di carbonio e cromo VI. In circa 50 anni di attività, quell’azienda ha inquinato un’area da 7 milioni di metri quadrati, nella quale vivono 25mila persone.
“La Caffaro ha continuato a inquinare legalmente fino al 2015. Non più con il Pcb, certo, ma con altre sostanze”, spiega Ruzzenenti. Classe ‘48, è uno dei più attivi per la questione bresciana sin dai primi anni del 2000.
Con i suoi libri e il suo impegno divulgativo, ha contribuito a far conoscere a tutto il Paese quello che sta accadendo a Brescia. Nonostante siano passati ben due decenni, i bresciani non possono riuscire nemmeno a scorgere la fine di questa storia fatta di ritardi, di mezze verità, di bandi andati deserti e di aziende poco trasparenti.
La pubblicazione del bando di gara per la bonifica
Classificata come Sito di interesse nazionale nel 2003, l’area contaminata dalla Caffaro ha vissuto in 20 anni dibattiti, dispute, procedimenti penali e condanne. Ma mai una bonifica generale dell’intero territorio.
L'ipotesi di un intervento massiccio per la messa in sicurezza è diventato realtà solo nei primi giorni del 2022, quando è stata annunciata la pubblicazione nella Gazzetta europea di un bando di gara per la bonifica del sito dal valore di 70,4 milioni di euro.
“Una cifra sicuramente insufficiente per vari motivi”, commenta Ruzzenenti. Tra questi il costo delle materie prime è sensibilmente aumentato a causa dell’invasione russa dell’Ucraina, oltre al fatto che una volta abbattuto lo stabilimento nessuno sa veramente cosa c'è sotto.
“Alcune analisi hanno dimostrato la presenza di Pcb fino a 30 metri di profondità nel terreno. – afferma Ruzzenenti – Quello che si può trovare là sotto è inimmaginabile".
Una sola offerta
Nonostante il ministero per la Transizione ecologica si sia già dichiarato pronto a reperire altri fondi, il bando scaduto il 3 maggio scorso non ha avuto alcun offerente. Per questo motivo, il commissario straordinario per l’emergenza, l’ingegnere Mario Nova, ha deciso di prorogare la scadenza di circa un mese.
Per settimane si è parlato dell’interessamento di 8 aziende diverse, anche se al 6 giugno è arrivata in via ufficiale una sola offerta. Stando alle informazioni trapelate nei giorni successivi, si tratterebbe di una Rti: cioè un'associazione temporanea di aziende.
Queste sarebbero: Htr Bonifiche, Greenthesis e Nico Spa. Per luglio è previsto il termine delle verifiche, anche se i lavori potrebbero iniziare non prima del 2023. L’obiettivo è di terminare la bonifica e consolidare la barriera idraulica.
La bonifica del campo Calvesi
Htr Bonifiche è una società romana, ma che ha sede anche a Milano. Specializzata nella bonifica di terreni, amianto e demolizioni, ha preso parte anche alla restituzione ai cittadini bresciani del campo Calvesi.
A pochi metri dagli stabilimenti della Caffaro Chimica, in quelle piste di atletica vigeva una regola importantissima: non calpestare l'erba. Anche quel prato, infatti, era pregno di Pcb e sostanze varie.
Anche in questo caso, la bonifica viene affidata a una Rti formata da due aziende bresciane, Pavoni spa e Germani spa, e dalla Htr di Matteo Bettoja. Iniziata il 6 febbraio 2019, si è conclusa nel maggio 2022 con un costo complessivo di circa 3 milioni e mezzo di euro.
La cerimonia, con tanto di taglio del nastro da parte del sindaco Emilio Del Bono, si è celebrata il 1° giugno.
Lo smaltimento dei detriti del terremoto del 2016
Fondata nel 2003, l’azienda di Bettoja ha preso parte negli anni a numerose operazioni di bonifica di una certa rilevanza in tutta la penisola. Una delle quali lo smaltimento dei detriti dopo il terremoto che nel 2016 colpì Lazio e Marche. La Htr si era aggiudicata quello che è passato alla storia come il primo grande appalto per la ricostruzione.
Tuttavia, non passò molto tempo che alcuni si accorsero del fatto che Bettoja era stato rinviato a giudizio per il caso Tav in Toscana e hanno iniziato a porsi domande su come sia stato possibile affidargli un appalto così importante.
I problemi con i cantieri dell'Alta Velocità in Toscana
Tutto nacque nel 2009 quando la forestale decise di fare accertamenti sullo smaltimento dei fanghi nei cantieri per l’Alta Velocità nella provincia di Firenze, in particolare nella questione appalti e subappalti. Secondo i magistrati, Htr non si era comportata in modo corretto.
Innanzitutto, faceva pagare 80 euro a tonnellata lo smaltimento di terre e fanghi anche se aveva in precedenza pattuito un costo di 66 euro attraverso “accordi occulti”. La differenza era da destinare a Nodavia, la società committente di quei lavori.
Non solo, secondo gli inquirenti Htr affidava gran parte del trasporto di quei materiali a un’impresa di Caserta: la Veca Sud di Lazzaro Ventrone, ritenuto dalla Direzione distrettuale antimafia al servizio del clan dei Casalesi.
Il processo Tav continua solo per 12 persone e 7 società
Il processo Tav sta andando avanti ormai da anni. Rinvii dopo rinvii, per alcuni dei 39 indagati è scattata la prescrizione: tutti quelli accusati di reati di frode in pubbliche forniture, abuso d’ufficio, falso e truffa.
Il procedimento giudiziario, invece, va avanti per 7 società e 12 persone, Bettoja e Ventrone compresi. Le accuse, a vario titolo, sono di traffico illecito di rifiuti, smaltimento abusivo dei fanghi in odore di aver agito per agevolare un’associazione mafiosa.
Il processo è iniziato nel novembre 2017, ma per la pandemia e per le centinaia di testimoni che dovranno essere ascoltati non si è ancora arrivati a una sentenza.
La Green Holding e il "re delle bonifiche"
Per quanto riguarda Greenthesis, l'azienda di Segrate era conosciuta prima dell'operazione di rebranding terminata lo scorso 19 maggio con il nome di Ambienthesis. Negli anni è diventata una delle aziende leader nel settore, sorta dal gruppo Green Holding fondato dal milanese Giuseppe Grossi soprannominato il “re delle bonifiche”, scomparso nel 2011.
Oggi il presidente è Alberto Azario, ma l’eredità Grossi viene mantenuta dai suoi figli nel consiglio di amministrazione, in particolare dalla vice presidente Simona e da uno dei due amministratori delegati, Andrea.
Il processo a Indeco
Andrea Grossi è nato a Bergamo nel 1982 e in pochi anni il suo nome è comparso più volte negli articoli di cronaca. La prima risale al 2014, quando la società Indeco finisce sotto la lente degli inquirenti.
L’accusa affermava che i soldi che la società Indeco avrebbe dovuto accantonare per la futura bonifica della discarica di Borgo Montello di Latina, in realtà finivano in paradisi fiscali grazie a operazioni illecite.
A muovere quel denaro, sarebbero stati alcuni amministratori del gruppo Green Holding, tra cui Andrea Grossi. Accusato di peculato in un giro d'affari da 35 milioni di euro, il figlio del “re delle bonifiche” viene giudicato estraneo ai fatti per due volte dalla Corte di Cassazione.
Il giro di tangenti tra Daniele D'Alfonso e alcuni esponenti di Forza Italia
Chiusa quella vicenda, l’ad di Greenthesis è finito ancora sotto indagine. Il suo nome, infatti, è comparso per un paio di volte e sempre legato a un certo Daniele D’Alfonso.
Titolare dell’azienda Ecol Service, D’Alfonso è risultato coinvolto in un giro di tangenti per il quale sono stati arrestati il consigliere comunale di Forza Italia Pietro Tatarella, il sottosegretario forzista dell’area Expo della Regione Lombardia Fabio Altitonante e l’ex coordinatore provinciale a Varese, sempre di Forza Italia, Gioacchino Caianiello.
Come ricostruito dagli inquirenti nel 13 maggio 2019, Tatarella era “stipendiato” con 5mila euro attraverso consulenza fasulle per procacciare lavori a D’Alfonso. In questo caso, si trattava della bonifica dell’ex cava di Geregnano a Bisceglie. L’obiettivo del titolare della Ecol era quello di ottenere il cantiere in subappalto da Grossi.
Il "contributo economico" di 10mila euro "al partito Fratelli D'Italia"
Nella stessa inchiesta, si è poi scoperto come Damiano Belli, al tempo legale rappresentante di Ambienthesis, elargiva “un contributo economico” da 10mila euro “al partito Fratelli D’Italia”.
Il tutto “senza annotare l’elargizione nel bilancio d’esercizio”. Un movimento di denaro che sarebbe avvenuto “su richiesta di D’Alfonso, a sua volta azionato da Grossi” ed effettuato attraverso un bonifico verso “un conto corrente intestato a Fratelli d’Italia Alleanza Nazionale” e aperto presso la filiale Bpm di Roma Montecitorio. In questo modo, ha sottolineato il gip, Grossi “intende finanziare” la campagna elettorale di FdI senza “figurare come finanziatore”.
Dal punto di vista pratico, il bonifico al partito veniva fatto da Gianfranco Gumiero, assessore all’Ecologia del Comune di Caronno Varesino, attraverso la moglie. Gumiero, poi, veniva “rimborsato da D’Alfonso, che a sua volta riceverà il denaro da Grossi”. Il tutto comprovato da diverse intercettazioni telefoniche.
Obbligo di firma per Grossi e D'Alfonso
Come ricostruito dalla Procura, nessuno in Fratelli d’Italia avrebbe mai ricevuto il denaro personalmente. Non solo, il partito ha anche pubblicato una nota in merito dichiarando di non aver “mai ricevuto illecitamente alcun finanziamento”. Non solo, in questo caso “si considera parte lesa”.
Tuttavia, il gip ha riconosciuto la “bontà” delle accuse firmando le misure sia per D’Alfonso sia per Grossi per il quale ha disposto l’obbligo di firma.
Passati burrascosi
Insomma, due delle tre aziende che potrebbero presto farsi carico delle incombenze della bonifica del Sin Caffaro sembrano avere ancora problemi con dei passati burrascosi. E il futuro, fatto di fondi insufficienti e di 25mila persone che arrivano da decenni di bugie e veleni, non offre di certo una sfida da sottovalutare. Per riassumere in poche parole, come suggerito dal professor Ruzzenenti: "Incrociamo le dita".