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Infanzia difficile e assenza di empatia: Alessia Pifferi dimostra la banalità del male di una mamma assassina

La perizia psichiatrica su Alessia Pifferi dimostra che non tutte le mamme assassine hanno patologie psichiatriche, nonostante un passato difficile che ne ha condizionato l’agire. Ma questo non le deresponsabilizza.
A cura di Margherita Carlini
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È stata depositata la perizia psichiatrica che aveva lo scopo, primo tra tutti, di stabilire se Alessia Pifferi fosse capace di intendere e di volere, il giorno in cui ha lasciato sua figlia Diana, sola in casa con un biberon di latte, per trascorrere dei giorni con un uomo. Sei giorni, nel corso dei quali la bambina è morta di stenti. Dalla perizia, emerge inoltre la ricostruzione della storia di vita e della personalità della Pifferi, per come lei si racconta e per come viene valutata in base alle risultanze cliniche e psicodiagnostiche. Una prospettiva che ci consente di vedere più da vicino, chi è questa donna, come funziona una madre che causa una morte tanto orribile alla sua bambina. Che ci consente, forse in maniera brutale ma realistica, di uscire da un immaginario stereotipato che ci porta a collegare, senza remore, un agito tanto inaccettabile sempre ed esclusivamente con una patologia psichiatrica. Uno stato patologico che avrebbe impedito a questa, come a purtroppo tante altre madri, di tutelare i propri figli, portandole invece ad ucciderli. Una prospettiva che non vuole essere in alcun modo deresponsabilizzante rispetto a quanto accaduto ma che può fornirci elementi utili per comprendere cosa c'è dietro all'orrore.

Nel corso degli incontri peritali la Pifferi si racconta come una bambina, che poi diventerà ragazza e quindi donna, perennemente ai margini. "Il pulcino nero" della sua famiglia, che tanto "si è sacrificata per stare a casa per mamma […] che nel 2000 ha avuto un incidente". Madre con cui non ha mai avuto un buon rapporto, così come non lo ha avuto con sua sorella, maggiore di dieci anni, che se ne sarebbe andata ben presto da quella casa, per costruirsi una vita ed una famiglia tutta sua. Una famiglia d'origine, quella che descrive Pifferi, all'interno della quale le relazioni tra i componenti erano condizionate dalla violenza che il padre esercitava nei confronti della madre. "In casa c’erano parecchie liti con mamma e papà […] ogni volta erano discussioni e mani addosso", riferisce la donna ai periti. Un padre maltrattante con il quale però lei dice di aver avuto un buon rapporto, perché lui la adorava. Una condizione questa, che con molte probabilità, come spesso avviene per i minori vittime di violenza assistita, l'ha portata a normalizzare quella violenza, in qualche modo a legittimarla, "c’erano alti e bassi, come in tutte le famiglie". Interiorizzando un modello relazionale in cui la violenza è tollerata e sopportata, pur di sentirsi inclusa, accettata in una relazione.

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Riferirà infatti, che anche l’uomo che ha sposato quando aveva circa 20 anni era stato violento con lei "lui alle volte mi alzava le mani addosso", e ciò nonostante il matrimonio sia durato oltre dodici anni. Cresce così la Alessia bambina, in un contesto di deprivazione affettiva, non solo nell'ambito familiare, ma anche amicale e scolastico (sempre quella in disparte tra gli amici, esclusa dai gruppi a scuola) che la porta inevitabilmente alla strutturazione di un'immagine di sé deficitaria, non buona insomma. Nel corso di un'infanzia segnata anche, lo riferisce sempre la donna, da abusi sessuali che subisce quando ha 10 anni, per circa un anno, da parte di un amico del padre.

La Alessia donna è una persona estremamente fragile, non strutturata, che cerca supporto e contenimento nelle relazioni affettive, che instaura sempre con uomini più grandi di lei. È lei stessa a riferire che nelle relazioni cercava appunto "una stabilità, una sicurezza, una certezza". È in queste dinamiche che emerge un tratto caratterizzante la personalità della Pifferi, come riscontrato anche in sede di valutazione, quello della dipendenza. Probabilmente negli anni la donna ha costruito un immaginario idealizzato di quella che sarebbe stata la sua famiglia, un affrancamento che le avrebbe consentito, in maniera del tutto astratta un’emancipazione dalla sua situazione familiare di origine. "Diventare mamma era il mio sogno […] una famiglia, un marito e mettere su famiglia". Il tratto dipendente la porta ad avere un comportamento sottomesso, vivendo nella costante paura di una separazione, che percepisce non solo come un abbandono, ma come un personale disvalore, ritenedosi incapace di vivere e funzionare autonomamente. Il desiderio di maternità, più che autentico, appare complementare al fine della realizzazione di questo progetto.

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È in questo contesto che Pifferi sperimenta l'esperienza della maternità, sin da subito in modo traumatico e negativo, come un progetto astratto, fondato su modelli superficiali e piuttosto convenzionali, idealizzati appunto. Le prime due gravidanze (la Pifferi resta incinta del marito) terminano con delle interruzioni spontanee che la donna fatica a spiegare e ricostruire in modo verosimile "interrotta per colpa di mia suocera che mi ha buttato l’acqua sul pavimento e io scivolai e si ruppe la placenta". Fino ad arrivare alla gravidanza non programmata e nemmeno percepita di Diana. La Pifferi riferisce infatti di aver inaspettatamente partorito nel bagno di casa dell’uomo che frequentava, non sapendo di essere incinta. “non ero pronta” […] “Mi immaginavo tutta un’altra storia, fare le varie cure, le varie cose che si fanno in gravidanza, non una botta a ciel sereno così”. Essere insomma, almeno una volta nella sua vita, al centro delle attenzioni di qualcuno.

L’arrivo della bambina, che nel suo immaginario doveva corrispondere con il coronamento di un sogno, coincide invece con l'abbandono da parte del suo compagno (probabilmente padre della bambina). Nonostante Pifferi riferisca, nel contesto peritale, di essere stata subito felice di essere diventata madre e di essersi sin da subito presa cura della bambina che aveva sempre con sé, la sua narrazione è priva di un reale coinvolgimento emotivo. Con le stesse modalità si esprime la donna, in riferimento anche ai fatti più tragici della sua vita (i maltrattamenti del padre alla madre, l'abuso subito, i maltrattamenti agiti da suo marito, la morte di Diana), mostrando un altro lato della sua personalità: l'incapacità di provare empatia. Il racconto del suo essere madre con Diana è esclusivamente incentrato sugli aspetti pratici della cura e deficitario di quelli emotivi. Come se tra madre e figlia non si fosse mai instaurato un significativo legame, come avviene nella maggior parte dei figlicidi.

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Questo la porta ad essere incapace di cogliere i reali bisogni di Diana e di comportarsi di conseguenza, anteponendo sempre se stessa. Così quando l'uomo la ricerca e le chiede di vedersi da soli, lei si prepara e lascia la bambina a casa, per giorni, con solo un biberon di latte. Dirà che in quei giorni la sua "mente si spegne dal ruolo di madre", concentrandosi su quello di donna. Pifferi fornisce a se stessa e quindi ai periti, questa motivazione per quello che è successo "ho avuto un problema a livello mentale", ma al contrario, le valutazioni effettuate la riconoscono pienamente in grado di intendere e di volere al momento in cui ha deciso di lasciare Diana a casa da sola e nei giorni a venire. Pifferi ha lucidamente scelto di anteporre i suoi bisogni di donna alla tutela della figlia, mostrandosi lucida e presente e se stessa anche quando forniva versioni diverse a chi le chiedeva dove fosse in quei giorni Diana, rendendosi perfettamente conto, quindi, del disvalore morale e delle possibili conseguenze delle proprie azioni.

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Sono Psicologa Clinica, Psicoterapeuta e Criminologa Forense. Esperta di Psicologia Giuridica, Investigativa e Criminale. Esperta in violenza di genere, valutazione del rischio di recidiva e di escalation dei comportamenti maltrattanti e persecutori e di strutturazione di piani di protezione. Formatrice a livello nazionale.
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