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Opinioni
Omicidio di Giulia Tramontano

Impagnatiello poteva imparare da Giulia Tramontano a fare delle scelte nella vita, ma ha preferito ucciderla

Giulia è stata aggredita alle spalle dalla persona che abitava sotto il suo stesso tetto. E non ha potuto difendersi. Né ha potuto salvare suo figlio. Impagnatiello avrebbe potuto imparare da Giulia che cosa significa lottare per migliorarsi.
A cura di Piero Colaprico
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Alessandro Impagnatiello (foto da LaPresse) e Giulia Tramontano (foto da Facebook)
Alessandro Impagnatiello (foto da LaPresse) e Giulia Tramontano (foto da Facebook)
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Ma alla fine di tutto, dopo che hanno parlato avvocati e magistrati, psichiatri e testimoni, mamme e parenti, una domanda – alla quale forse tutti hanno pensato ma che nessuno ha espresso – non se ne va: "Impagnatiello, ma perché non sei scappato?".
Inchiodato ai turni del barman, nell'aula della Corte d'Assise ha continuato a servire, udienza dopo udienza, il suo cocktail di morte e truffe.

Così come, sguazzando prima nella sua doppia vita sentimentale e sessuale, aveva continuato a imbrogliare pesantemente Giulia Tramontano, madre del futuro figlio, e a corteggiare come se non fosse impegnato la collega dell'hotel, la giovane A. "Passavo – ha detto – da vanto a vanto". Cioè, non donne, ma pedine da muovere sulla scacchiera della sua vita per apparire – senza esserlo davvero, anzi – eccezionale.

Nel processo, più volte, nell'ascoltare le spiegazioni assurde dell'imputato, nel rileggere come e perché avesse ucciso e come e
quando tentasse di crearsi un fragile alibi, sembrava di essere trascinati in un gorgo, di quelli che ti porta in fondo e ti fa mancare l'aria: in fondo, però, come non raramente capita, ad annaspare è rimasto lui e il 25 novembre ascolterà nella gabbia la sua sentenza di condanna.

Alessandro Impagnatiello non è quel mistero che vuol far credere di essere: fa parte della banale e ottusa categoria di quelli che vivono la vita come se fosse un'eterna gara dei cento metri piani. Ogni giorno una vittoria o una sconfitta, ogni giorno un gradino, ogni giorno – nel suo caso – un pensiero di morte, ovviamente non per sé. La vita, invece, è spesso una complicata maratona e per arrivare in fondo bisogna saper scegliere.

Impagnatiello non è capace di sudare e faticare come per le maratone, è soltanto capace (nella sua testa, che non pare brillante)
di vedere un corto rettilineo. E così, quando Giulia resta incinta, prima le chiede di abortire, poi no, poi si, poi vediamo. Nel frattempo, subdolamente, vigliaccamente, l'avvelena con il topicida, tanto che la povera fidanzata, che si credeva amata, soffre di mal di stomaco e non può nemmeno partecipare, con la famiglia, alla gita per i mercatini di Natale. Lei si contorce dal dolore e lui prosegue la sua relazione con l'altra. Sin qui, può capitare.

Ma è quando le due donne s'incontrano e si parlano, che Impagnatiello corre gli ultimi cento metri da killer. Il veleno non basta più, bisogna far presto, e quindi servono il coltello e il fuoco. Improvvisa l'attacco finale e mortale a Giulia, lasciando un sacco di tracce, quelle tipiche dell'ignorante delle tecniche d'investigazione. E non lo frena il macigno morale di Thiago: che Giulia porti in grembo il loro bambino diventa un dettaglio.

Questo è dunque Impagnatiello, un essere umano che non sa prendersi le responsabilità di decidere e trova la capacità criminale di eliminare "il problema". Rispetto alle “non-scelte” di vita di Impagnatiello, che si tramutano nell'orrore delle coltellate, del corpo bruciato, dei depistaggi, Giulia Tramontano appare come una vittima che viene sacrificata dal carnefice a un altare per noi incomprensibile.

"Impagnatiello, perché non sei scappato?", la domanda è ricorrente. Mentre a Giulia non sapremmo che cosa chiedere. Non ci sono zone d'ombra in lei: va al Nord in cerca di una vita migliore, lavora nel mercato immobiliare, chatta con un ragazzo – lui, il futuro assassino – pensando sia quello giusto. Giulia lo porta a casa e lo presenta alla sua famiglia affettuosa, che tira un sospiro di sollievo: ha fatto bene Giulia a lasciare questa Napoli e dintorni. Brava Giulia, che lavora e ha un fidanzato e pensa al futuro. E adesso ci diventa anche mamma, fa famiglia, famiglia come la nostra, come tanti simili a noi.

D'improvviso, però, l'incanto che incanto non è, ma soltanto legittima prospettiva di vita, finisce nel peggiore dei modi e arrivano sino a Napoli i lampi dell'infelicità di Giulia, creata dall'altalena emotiva sulla quale, senza un minimo di rispetto,
Impagnatiello la spinge. Sempre più forte, sempre più crudelmente, sino a disarcionarla. I familiari di Giulia hanno vissuto, sconcertati, e speranzosi, lo stesso calvario.

In Francia, al processo per le stragi terroristiche del Bataclan, il padre di una vittima e il padre di un terrorista si sono parlati, anche su un tema molto particolare: e cioè se sia meglio (usiamo questa parola, forse impropria) avere una figlia assassinata o
un figlio assassino. Nel caso di Giulia, la domanda assume una sfumatura più tragica: l'assassino è vivo e Giulia, "la nostra Giulia", è morta. Non c'è più. Non la possiamo consolare, coccolare, aiutare. Non possiamo abbracciarla.

Non può, tenace com'era, rinascere a una nuova esistenza, farsi una nuova famiglia, invecchiare con Thiago. Per la sua famiglia, com'è stato detto in aula, c'è solo "lavoro e cimitero". Però, ci permettiamo di dire a chi in aula non c'era, esiste anche il conforto umanissimo di aver avuto come figlia, sorella, amica una donna come Giulia. E di sapere che Giulia, sino alla fine così rapida e brutale, è stata una donna in gamba, una mamma che avrebbe voluto crescere il bimbo da sola e allontanare
da sé e dal neonato quell'uomo ormai trasformato in un incubo.

Era una donna forte, dallo sguardo limpido, capace di scelte. E anche per questo, come appare evidente a chiunque abbia un minimo di dimestichezza con le scene del crimine, Giulia è stata aggredita alle spalle dalla persona che abitava sotto il suo stesso tetto. E non ha potuto difendersi. Né ha potuto salvare suo figlio. Ma in che cosa ha sbagliato? In niente. Amare non è uno sbaglio. Quando ha capito che il suo amore era andato nella direzione sbagliata, stava facendo marcia indietro: e invece.

"Impagnatiello, perché non sei scappato?". La risposta è che per fuggire e per ricostruirsi una vita che è una maratona, e non una serie di 100 metri, bisogna avere molto coraggio e molta forza d'animo. Qualità che mancano al barman mitomane: se non
fosse quello che è, avrebbe potuto imparare da Giulia che cosa significa lottare per migliorarsi.

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Piero Colaprico. Liceo al collegio Morosini, laurea in legge a Milano, assunto nel 1985 da Repubblica, nominato nell’89 inviato speciale, nel 2006 responsabile del settore nera e giudiziaria, nel 2017 capo della redazione. Si è dimesso nel ’21, mantenendo varie collaborazioni giornalistiche. Scrittore di gialli e noir, ne ha scritti 15, alcuni tradotti in inglese, francese, romeno. Da un suo saggio, “Manager calibro 9”, è stato tratto il film “Lo spietato”. Scrive anche per il teatro, attualmente è direttore artistico del teatro Gerolamo, storica sala milanese.
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