Il presidente del Tribunale di Milano: “Non separate le carriere dei magistrati, intercettazioni indispensabili”
Il 10 gennaio 2024 Fabio Roia è stato nominato presidente del Tribunale di Milano. Entrato in magistrato nel 1986 come giudice penale a Monza, è stato anche pubblico ministero a Milano, precisamente nel pool ‘fasce deboli'. Dopo essersi occupato di processi sulla diffamazione, bancarotte e reati tributari, ha lavorato nella sezione sui reati in danno di vittime vulnerabili: diversi i procedimenti trattati in materia di reati sessuali.
Tra il 2006 e il 2010 è stato consigliere togato del Consiglio superiore della magistratura. A Milano ha poi ricoperto il ruolo di presidente della sezione misure di prevenzione per poi essere presidente vicario del Tribunale. Nel 2018, infine, ha ricevuto l'Ambrogino d'Oro.
Il suo obiettivo è quello di avere un tribunale "moderno che abbia al centro la persona, che deve curare i numeri – come richiesto dall'Europa attraverso i finanziamenti dati al Governo italiano e al ministero della Giustizia – che non si dimentichi mai che ogni questione anche la più piccola nasconde un diritto violato e quindi una persona che a sua modo sta soffrendo quella situazione", ha spiegato in un'intervista a Fanpage.it.
In che condizioni è il Tribunale di Milano nel momento in cui ne assume la presidenza?
È un tribunale modello, lo dico senza alcuna presunzione. Ci sono stati grandi presidenti ma, al di là di questo, c'è una passione nei giudici e nel personale amministrativo che caratterizza sempre gli uffici giudiziari di Milano e la loro storia giudiziaria.
Ci sono ovviamente grandi difficoltà, ma dall'esterno ci dicono che, in taluni settori, è già un tribunale proiettato su modelli europei. Dal punto di vista della durata del procedimento, soprattutto nel settore civile, i numeri ci dicono che siamo proiettati in questa direzione.
Abbiamo comunque numerosi problemi che caratterizzano tutti gli uffici giudiziari italiani quali: la grave scopertura del personale amministrativo, la necessità di raggiungere gli obiettivi del Piano nazionale ripresa resilienza, la scopertura di taluni giudici, ma diciamo che, nell'ambito di problematiche comuni, riusciamo ad assicurare una buona risposta giudiziaria. Anche dal punto di vista della qualità e dell'ascolto di persone.
Cos’è che rallenta così tanto la macchina della giustizia in Italia?
Ci sono diversi fattori. Noi abbiamo la riforma Cartabia, che è una riforma di sistema sia nell'ambito civile che penale. Quando si fanno riforme di questo tipo, l'impatto è quasi sempre fibrillante. Ci vogliono diversi mesi, se non anni, affinché il sistema assorba, metabolizzi ed esprima le migliori condizioni per attuare le norme.
Siamo in una frase di transizione per tutti i processi telematici. Lo siamo non solo nel civile dove storicamente lavoriamo con il processo civile telematico, ma anche nel processo penale telematico. E siamo in una fase di transizione anche nell'ufficio del giudice di pace di Milano, il quale viene considerato spesso di secondo piano anche se non lo è. Ufficio inoltre la cui responsabilità, nel nostro circondario, dipende sempre dalla presidenza del tribunale.
Quello che io temo è che vengono continuamente riformati aspetti processuali e sostanziali che impediscono una forma di assimilazione di nuovi istituti, di studio e di applicazione di nuovi modelli organizzativi. Per consentire questo, c'è bisogno infatti di una stabilità normativa.
Questa lentezza danneggia le vittime dei reati, ad esempio le donne maltrattate?
A Milano abbiamo un dato che è significativo di quanto sia massimo l'impegno della Procura e in secondo piano del Tribunale, che ovviamente è un organo ricevente rispetto alla politica giudiziaria della Procura.
Il 70 per cento di tutte le misure cautelari emesse dalla nostra sezione gip (giudice per le indagini preliminari) e gup (giudice dell'udienza preliminare) riguardano reati dettati dal genere quindi sostanzialmente violenze sessuali, maltrattamenti contro familiari e conviventi e atti persecutori.
Quello che notiamo è che, nella fase del dibattimento, c'è un allungamento dei tempi di durata dei procedimenti che va oltre l'anno e mezzo. Questo non va assolutamente bene. Succede comunque nonostante, in questi anni, abbiamo aumentato il numero delle sezioni da due a tre.
Il dato positivo quindi è che a Milano aumentano le denunce perché evidentemente c'è una rete di accoglienza di natura metropolitana che favorisce l'emersione del fenomeno. Noi però dobbiamo adeguare la risposta a questa necessità e quindi fare i processi con competenza, professionalità, efficacia ed efficienza e soprattutto in tempi assolutamente ragionevoli perché tempi troppo lunghi costituiscono una forma di violenza invisibile e secondaria nei confronti delle vittime.
Spesso si propongono riforme di vario tipo per migliorare la giustizia, ma secondo lei è possibile migliorarla senza aumentare il personale? E perché non lo si incrementa mai realmente?
Noi saremmo contenti se al di là dell'incremento nelle piante organiche, fossero assicurate le presenze nelle piante organiche perché Milano attualmente, nell'ambito del personale amministrativo, ha una scopertura che sfiora quasi il 40 per cento. Questo deriva da diversi fattori.
Milano è una città molto cara: ovviamente e giustamente il singolo operatore amministrativo a parità di stipendi sceglie città meno care. C'è quindi un problema di costo della vita complessiva. Non parliamo poi del problema delle abitazioni o altro.
Dobbiamo quindi studiare nuove formule che possono essere, come avviene per gli stessi magistrati, di prevedere incentivi economici dove c'è una forte scopertura. È evidente che nelle realtà metropolitane, soprattutto nelle città più care, a parità di stipendio vi è una tendenza di allontanamento da questi luoghi.
Parliamo di personale che ci aiuta a celebrare le udienze, a lavorare sul processo civile telematico e che svolge una funzione di supporto alla attività giurisdizionale.
Crede che la separazione delle carriere possa essere utile?
Sono fortemente contrario perché ritengo – non lo dico come slogan, ma in maniera assolutamente laica e consapevole – che i migliori pubblici ministeri siano quelli che nella loro vita hanno fatto anche un'esperienza da giudice. La prospettiva deve essere quella di svolgere le indagini, quindi di esercitare l'azione penale, avendo una profonda cultura della prova.
Per mandare una persona a processo ci vogliono prove, non teoremi o sensazioni o sospetti. La storia evidenzia, come questo possono farlo non solo i pubblici ministeri che hanno dapprima svolto la funzione di giudici, ma anche i pm che dopo essere passati alla carriera giudicante sono tornati a fare i pubblici ministeri.
Noto però che la legislazione sta già andando verso una separazione delle funzioni. Se vediamo i dati di chi passa dalla requirente alla giudicante (e viceversa) siamo sotto al 2 per cento. Di fatto questa separazione è già in atto, ma è una perdita per la giurisdizione.
Io stesso ho fatto il pubblico ministero fino al 2005 e le assicuro che sono in grado, proprio per la mia esperienza, di capire benissimo quali possono essere i problemi di organizzazione di una grande procura metropolitana e tutti gli aspetti che riguardano l'esercizio dell'azione penale o la raccolta degli elementi di prova. Secondo me è un fattore di arricchimento.
Nuove regole sulle intercettazioni sono realmente indispensabili come vengono proposte?
Io credo fortemente nella libertà di stampa e soprattutto nell'autodisciplina del giornalista. Non sono uno che ama sanzionare sempre i comportamenti. Credo che sia giusto richiamare la capacità di effettuare deontologia nella professione del giornalista, che è un mestiere di grande interesse, rilievo costituzionale e soprattutto di controllo sull'attività che gli altri svolgono.
Il problema delle intercettazioni c'è quando queste riguardano terze persone che non hanno ruoli di funzione pubblica, quando vengono pubblicate generando forme di suggestione, per cui una persona completamente estranea alla vicenda viene messa nella gogna mediatica.
Fermo restando che l'intercettazione è uno strumento assolutamente indispensabile in ogni tipo di attività di indagine, ma soprattutto in quelle di criminalità organizzata, pubblica amministrazione e di altri reati dove ci sono interessi convergenti a far sì che non emerga la notizia di reato, credo che farei leva sulla capacità deontologica della stampa per evitare pubblicazioni che ledano l'immagine di terzi.
Mi rendo conto che è un approccio da iperuranio, ma dovremmo andare verso questa direzione.
È vero, però, che un cittadino non può restare per anni in attesa del giudizio. Ma se ci fossero più magistrati secondo lei non si risolverebbe il problema, senza dover intervenire su prescrizione, pene e quant’altro?
In magistratura attualmente abbiamo un vuoto importante di organico. I concorsi, che sono molto rigorosi, sono tornati di primo grado con la riforma Cartabia. Adesso sono aperti anche a chi si è appena laureato. Questo secondo me è un vantaggio, anche se le prove richiedono tempi di reclutamento molto lunghi.
C'è un altro problema. Ci sono diversi magistrati, relativamente giovani, che hanno compiuto 65 anni che vanno in pensione perché non hanno più voglia, necessità o aspirazione di rimanere in magistratura. Bisognerebbe innanzitutto riempire gli organici di magistratura: è evidente che un sistema per produrre efficienza deve essere in piena pianta organica. È come se una squadra di calcio giocasse in nove invece di undici e in questo caso il rendimento sarebbe assolutamente inferiore.
Si parla sempre di penale, ma il tribunale di Milano ha anche un elevato arretrato in ambito civile. Lì come si può intervenire?
Non ne abbiamo tanto in ambito civile, ma in altri settori. La sezione che è più in crisi è quella della immigrazione e della protezione internazionale dove ci sono undicimila pendenze: il dato è il più alto in Italia.
Purtroppo quello dei flussi migratori nell'ambito del territorio nazionale è un settore che il tribunale non può controllare. Evidentemente le riforme che sono state fatte in questo settore non hanno deflazionato il sistema giudiziario.
Ci accorgiamo che quando si trattano domande di questo tipo, in alcuni casi, il soggetto che ha fatto richiesta di protezione sussidiaria o protezione primaria si è già inserito dal punto di vista sociale.
In questo settore abbiamo immesso molti giudici e infatti è stato ampliato l'organico proprio dedicato alla sezione immigrazione. Il consiglio superiore è stato molto attento perché ha anche applicato due magistrati da altri tribunali. Ripeto: il problema della migrazione dei flussi è un problema che non riguarda il settore giudiziario. A volte noi assumiamo responsabilità o ci vengono imputate colpe – purtroppo c'è un grande tema che la magistratura non gode di grande fiducia da parte di cittadini e altre Istituzioni – basate su disfunzioni del sistema che non competo sempre a noi colmare.
Invece se facessimo un confronto con tutto il resto d'Europa, noteremmo che i magistrati italiani sono quelli che hanno la più alta produttività a livello europeo.
Lei pensa realmente che gli italiani abbiano una tendenza maggiore a ricorrere alla giustizia per dirimere le controversie?
Penso che in taluni casi sia giusto perché la giustizia deve essere un servizio aperto tutti, non solo ai ricchi o alle persone che se lo possono permettere.
Credo anche che ci sia un ricorso alla giustizia anche in casi dove ci potrebbero essere strumenti di conciliazione alternativa. Ho in mente un giudice di quartiere, un giudice non professionale che risolva le questioni che riguardano le liti condominiali.
Bisognerebbe avere una cultura della conciliazione e di accettazione che un soggetto terzo, che non appartiene alla giurisdizione, ma che abbia una competenza, una cultura o un'autorità possa risolvere questo tipo di controversie.
Riguardo alla violenza di genere, spesso nascono polemiche per il linguaggio utilizzato da alcuni magistrati all’interno dei loro atti. Crede sia un fattore culturale? Bisogna intervenire sulla formazione?
Molte volte i magistrati, così come tutte le persone, hanno pregiudizi che derivano da una formazione culturale particolare, dal credere in determinate situazioni, da pregiudizi. Questi vanno eliminai perché i giudici e i pubblici ministeri devono emettere gli atti o le decisioni in maniera laica a prescindere dai propri convincimenti.
Lo sforzo di professionalità sta innanzitutto in questo: quelle frasi e quei passaggi evidenziano questi pregiudizi che non devono assolutamente esistere né trasparire. Lo scrivere determinate cose può evidenziare questo pregiudizio o soprattutto esprimere un giudizio morale sulla vicenda che non compete al magistrato.
Quali saranno i suoi obiettivi e i suoi primi passi dia presidente ufficiale del Tribunale di Milano? Pensa di voler chiudere così la sua brillante carriera?
La ringrazio anche se questa è una domanda che si fa solitamente dopo i primi 100 giorni a chi assumi una carica di governo. La mia è un altro tipo di carica. Il tribunale di Milano deve essere un tribunale che, come già sta facendo, mette la persona al centro. Deve essere aperto alla società e alle Istituzioni.
Abbiamo la fortuna di avere un ottimo rapporto con l'ordine degli avvocati e quindi condividere le diverse problematiche con le altre Istituzioni. Il tribunale di Milano deve avere una circolarità di partecipazione: tutti i giudici e il personale amministrativo devono partecipare dal punto di vista dell'informazione, della formazione e della decisione.
È chiaro che c'è un vertice terminale a cui compete la sintesi. Ho in mente un tribunale moderno che abbia al centro la persona, che deve curare i numeri – come richiesto dall'Europa attraverso i finanziamenti dati al Governo italiano e al ministero della Giustizia – che non si dimentichi mai che ogni questione anche la più piccola nasconde un diritto violato e quindi una persona che a sua modo sta soffrendo quella situazione.
Cosa pensa del divieto alla pubblicazione delle ordinanze? È davvero una garanzia per gli indagati?
Sono contrario a questa disposizione perché le ordinanze fanno parte di un'attività incidentale del giudice. Forse una corretta informazione dovrebbe dire che quella ordinanza è una decisione che il giudice prende solo sulle base delle carte del pubblico ministero. Bisogna sottolineare, per esempio, che quella ordinanza – con la legislazione attuale – viene emessa senza avere sentito il difensore o le ragioni dell'indagato.
Nel pubblicare un'ordinanza devono essere omissati i dati sensibili, se parliamo di violenza di genere evitiamo di pubblicare i dati della vittima o dati che possono identificarli.
Quanto i magistrati stessi, anche attraverso l'uso dei social, possano danneggiare la categoria e alimentare senso di sfiducia da parte dei cittadini?
La magistratura ha perso fiducia nei cittadini per una serie di fattori: il primo è che a volte viene attribuita alla magistratura l'inefficienza del sistema. Questo però sarebbe come accusare i medici per l'esistenza di lunghe liste d'attesa per effettuare visite.
Noi abbiamo una responsabilità: le ultime vicende che hanno caratterizzato le nomine del Consiglio superiore della Magistratura e altre singole vicende non sono certamente un buon biglietto da visita. Dobbiamo recuperare una forte eticità nel comportamento e una forte autorevolezza, che però non ci pongano in un palazzo chiuso, ma al centro della società.
Si può avere autorevolezza, credibilità, capacità di dialogo stando anche al centro dei problemi sociali. Affinché i cittadini capiscano noi dobbiamo essere in grado di spiegare bene le decisioni, il sistema e cosa facciamo proprio ai cittadini. Questom secondo me, potrebbe essere il percorso per recuperare la credibilità di cui abbiamo bisogno, non per noi stessi ma per l'istituzione che rappresentiamo e il servizio primario che forniamo.