“Il pane a Milano non può costare meno di 8 euro al chilo, altrimenti non è etico”: parla la fornaia Aurora Zancanaro
Il pane non è più "democratico", e ormai è diventato un bene di culto riservato a "chi se lo può permettere"? A Milano, negli ultimi tempi, lo sostengono in tanti. E così la "nuova scena" dei giovani panettieri che in città aprono il proprio forno, spesso approdando da altri percorsi professionali o accademici, è oggi più che mai oggetto di discussione: ritorno alle origini, rivoluzione gastronomica o moda passeggera? E i prezzi? Sono giusti o pesantemente caricati dallo "storytelling"? Ne parliamo con Aurora Zancanaro, fornaia e fondatrice del panificio Le Polveri, diviso tra il centro nobile di Sant'Ambrogio (via Ausonio) e il quartiere del Giambellino (via Vespri Siciliani) a Milano.
Qual è la tua formazione?
Mi sono laureata in chimica industriale a Venezia nel 2010. Dopo qualche anno come assegnista di ricerca ho deciso di cambiare laboratorio e reagenti, e dedicare del tempo alla formazione per diventare panificatrice. Volevo dei materiali vivi e dal 2017, dopo qualche anno di esperienza come dipendente in forni e mulini, ho finalmente deciso di aprire il mio panificio a Milano.
Il tuo prodotto più costoso?
È il panfrutto, lo vendo a 15 euro al chilo. È un pane 100 per cento di segale integrale a lievito madre di segale con semi di finocchietto e coriandolo tostati, semi di zucca girasole e lino, albicocca, prugne, uvetta, fichi e mandorle.
Un pane buono non può costare meno di…?
Direi almeno 8 euro al chilo. Senza contare che all’autogrill le baguette sono vendute a 10 euro al chilo… e sicuramente il mio pane e queste baguette sono prodotti ben diversi. Da quando ho iniziato questo mestiere, del resto, il prezzo del pane è sempre stato controverso: non è accettato che un prodotto artigianale costi più di quello industriale che si trova nella grande distribuzione.
Cosa concorre a stabilire il prezzo del pane? Perché in certi posti costa di più?
Il costo integrale di un pane per un singolo fornaio include materie prime, stipendi, affitto del locale in città ed energia come cose ovvie. Ma quello che non si vede è anche tassazione, aggiornamento HACCP, sicurezza, corsi antincendio e primo soccorso per tutti i dipendenti, derattizzazione, consulenza HACCP, RSPP, estintori, consulente del lavoro, commercialista, imprevisti e varie ed eventuali. Ma soprattutto sono il benessere dei dipendenti e la qualità delle materie prime a incidere sul prezzo finale.
Quali sono le condizioni dei dipendenti?
Nel mio caso, anche se dovrebbe essere ovvio ma nella ristorazione non lo è, i miei dipendenti fanno davvero cinque giorni su sette, per otto ore al giorno consecutive, e non lavorano mai la notte. Questo perché voglio e devo garantire loro una buona qualità della vita. Non sapendo quando smetteremo di lavorare, con la pensione in forse e almeno dai 70 anni in poi, un mestiere così faticoso non può e non deve diventare usurante.
Qual è la routine di un fornaio?
La giornata tipo inizia intorno alle 5 con le infornate del pane e i rinfreschi del lievito. Apriamo alle 9.30 con tutto il banco allestito e il pane per i ristoranti in partenza, poi mentre le colazioni vanno avanti iniziano gli impasti, la formatura e tutte le altre preparazioni specifiche. Verso le 17-17.30 è tutto pronto per il riposo notturno in cella di lievitazione, mentre la vendita chiude alle 18.30 con le ultime pulizie e il rinfresco del lievito.
Non incide anche l'ormai famigerato "storytelling", nel costo finale del pane per il consumatore?
Raccontare o divulgare tutto il lavoro che c’è dietro ad una pagnotta conferisce valore al prodotto che si vuole vendere. Poi sì, in giro ci sono anche le scatole vuote in cui si cerca di intercettare il trend in ascesa del pane di qualità, utilizzandone la narrazione più che il ciclo produttivo e le materie prime. Sta a noi formare i clienti dandogli il miglior pane possibile, e far sì che non si accontentino di un prodotto ingiustamente costoso.
Il pane non dovrebbe essere "democratico" per tutti, a prescindere?
Il pane è sicuramente un bene di prima necessità, siamo tutti d'accordo: non a caso durante il Covid, a differenza di pasticcerie e ristoranti, i forni sono sempre rimasti aperti. Ma uno dei punti importanti della questione è in fondo la de-valorizzazione del pane e della sua filiera agricola, avvenuta quando la produzione artigianale e quella casalinga sono diventate produzione industriale riducendo sì costi, ma anche qualità e centralità del prodotto a tavola.
Vendere il pane a 8 euro però, secondo le voci più polemiche, non sarebbe giusto.
Sostenere questo restringe la visione del prodotto al solo consumatore finale senza soffermarsi su quanto sia etico il lavoro di contadini e agricoltori che hanno deciso di intraprendere agricoltura biologica o rigenerativa, mugnai che affinano le proprie tecniche per preservare la qualità del prodotto, e panificatori che usano il lievito madre per garantire gusto, digeribilità e lunga durata. Si confonde spesso prezzo con valore, per cui la vera domanda da farsi sarebbe: vale davvero questi 8 euro?
Ma spesso il consumatore finale, per risparmiare, è costretto comunque a ripiegare sul pane industriale.
A Berlino i panifici artigianali hanno delle sovvenzioni pubbliche, ed è così che riescono ad avere dei prezzi più contenuti. Qui in Italia è impensabile, ma sarebbe forse la strada più giusta per rendere il pane più “popolare”, mantenendo etico e intatto il valore e il prezzo del prodotto. Un esempio di politica sociale diversa da quella italiana.
La nuova scena di artigiani panificatori è un fenomeno tutto milanese?
In realtà è un movimento nazionale: sono molto contenta che ci sia anzi una connessione tra diverse realtà di città e realtà agricole di produzione, per portare avanti lo stesso messaggio. E comunque, per quanto riguarda la scena milanese, il rapporto panifici tradizionali o grandi supermercati contro panifici artigianali di quartiere è ancora molto sbilanciato numericamente verso i primi.
Qual è il messaggio da portare avanti?
Nel mio caso è sicuramente importante creare connessioni vere con i clienti, sia sui social che in negozio, instaurando quella fiducia reciproca delle realtà di quartiere che in città scarseggiano, e creare con i clienti una consapevolezza più diffusa riguardo il cibo, la filiera, l’ambiente e uno stile di vita più coerente a questi temi.