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Alberto Genovese arrestato per stupro

Il caso Alberto Genovese, tra sadismo sessuale e victim blaming

Alberto Genovese, a processo con l’accusa di aver stuprato due ragazze di 18 e 23 anni, è un predatore sessuale dei giorni nostri. Il caso dell’imprenditore digitale e la sua narrazione sui media impongono una riflessione sui concetti di sadismo sessuale e colpevolizzazione della vittima.
A cura di Anna Vagli
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Alberto Genovese, a processo con l'accusa di aver stuprato, sequestrato e drogato una ragazza di 18 anni e una di 23, incarna un emblematico esempio di comportamento del sadico sessuale.  In questo senso, per comprendere quali sono le dinamiche criminologiche capaci di spingere una persona a macchiarsi di crimini di una simile portata, ho ricostruito per Fanpage.it i principali tratti comportamentali dell’imprenditore digitale arrestato a Milano nel novembre 2020 e adesso ai domiciliari in una comunità per disintossicarsi dalla cocaina, in attesa della prossima udienza del processo prevista per il 5 aprile. Ma non solo: ho infatti analizzato come la narrazione tossica di una simile vicenda possa rivelarsi irrimediabilmente fuorviante. Ed ho parlato così di victim blaming.

La personalità di Alberto Genovese

La parola stupro deriva dal latino stuprum, onta, disonore. Di conseguenza, la violenza sessuale, come strettamente concepita, è direttamente collegata alla religione e alla mitologia greca. Si pensi al Dio Pan, il grande stupratore, e al mito di Core o Persefone, figlia di Zeus e di Demetra, rapita da Ade. Lo stesso mito di Roma è nato da un rapimento e stupro di gruppo: il ratto delle sabine.

Ma se, in realtà, il termine stupro investe la qualificazione giuridica della condotta, per quel che attiene la devianza ci troviamo nel campo delle parafilie, definite come alterazioni a carico della sfera sessuale. In questo senso, la personalità di Alberto Genovese presenta caratteristiche proprie del sadico sessuale. Questa tipologia di rapist è sicuramente un soggetto rabbioso, che ottiene gratificazione erotica esclusivamente tormentando e torturando la propria vittima.

In altri termini, l’atteggiamento di un simile predatore si fonda su quella che possiamo definire "erotizzazione dell’aggressività". Il dolore inflitto e la paura palesata dalla preda sono l’unica tipologia di appagamento sessuale in grado di essere conosciuta dai sex offender. Per queste motivazioni, un simile scenario è perfettamente sovrapponibile a quanto avvenuto a Terrazza Sentimento (il lussuoso attico nel centro di Milano teatro di uno dei due stupri contestati): Alberto Genovese ha spogliato la sua vittima l'ha legata al letto con mani e polsi, ignorando completamente le sue richieste di aiuto. Richieste che provenivano da una ragazza di appena diciotto anni, inerme e completamente disumanizzata.

Un uomo del tutto privo di empatia, indifferente, cinico e sprezzante. Perpetrava le sue aggressioni carnali in un luogo da lui considerato sicuro – data la presenza costante dei bodyguard fuori dalla sua stanza da letto – e del quale aveva certamente ed inevitabilmente il pieno controllo. Pertanto, anche per Genovese, la sofferenza inflitta costituiva verosimilmente il mezzo per raggiungere la più alta forma di eccitazione. Nello specifico, l’uomo percepiva il bisogno impellente di colmare il senso di vuoto di cui era afflitto, unitamente alla sensazione di aridità affettiva, infliggendo a sua volta dolore ed umiliazione. Dunque, le ragioni alla base di quanto accadeva a Terrazza Sentimento, avevano a che fare con il controllare, il soggiogare, il torturare. Un atteggiamento criminale connotato da calma glaciale: le angherie venivano inflitte da Genovese senza alcun tipo di rimorso.

In definitiva, gli elementi che più colpiscono nel declinare la condotta di quest’ultimo, sono la totale indifferenza e le modalità messe in campo per allungare quanto più possibile la pratica di sottomissione e di controllo. Ventiquattro ore, per la metà delle quali, la ragazza era pressoché incosciente per effetto della chetamina.

La narrazione mediatica del caso Genovese

La vittima da reato occupa nella nostra epoca un ruolo da protagonista e per rendercene conto è sufficiente focalizzare l’attenzione sulle notizie offerte quotidianamente dai mass media. Dal punto di vista mediatico, è una figura sovraesposta e pertanto capace di attrarre l’attenzione del pubblico in maniera proporzionale alla gravità del reato. Spesso, però, si ignora come una donna subisca non soltanto le conseguenze direttamente connesse al reato, per la quale si parla di vittimizzazione primaria – facendo riferimento alle conseguenze pregiudizievoli di tipo fisico, psicologico, prodotte sulla vittima proprio dal reato stesso -, ma anche gli effetti della vittimizzazione secondaria. Vale a dire quelle conseguenze negative, dal punto di vista emotivo e relazionale, derivanti dal contatto tra la preda e il sistema delle istituzioni in generale.

Il victim blaming, la colpevolizzazione della vittima

Si parla, in gergo tecnico, di victim blaming e cioè di "colpevolizzazione della vittima". Una tendenza capace in concreto di spostare l’enfasi dall’aggressore all’aggredito, scagionando il reale responsabile e non intaccando la sua reputazione. Il victim blaming è messo in atto sia da donne che da uomini che, consapevolmente o meno, riportano notizie di violenza in modo inappropriato. Descrivere il maltrattante come una persona buona o parlare dei vestiti indossati dalla vittima fa passare un messaggio sbagliato: la responsabilità non è di chi ha agito violenza. Almeno non del tutto.

È capitato, molto spesso, che qualcuno abbia descritto Genovese come "un brillante imprenditore", "un genio delle startup costretto a fermarsi". Queste frasi, unitamente ai commenti social sulla vittima del calibro: "Cosa ci faceva lì?", "Ha accettato la droga", sono drammaticamente fuorvianti. Come se la presenza della vittima potesse giustificare l’atteggiamento del "brillante imprenditore". Difatti, questo tipo di informazione crea all’istante, nella mente di chi la recepisce, la correlazione tra le due cose: "Se ti comporti in un certo modo te la sei andata a cercare". Qualcuno, addirittura, è arrivato a mettere in dubbio le violenze anche di fronte alla documentazione copiosa presente nel fascicolo.

Insomma, quell’idea radicata per la quale la donna non sia del tutto priva di colpe, che abbia in qualche modo provocato l’aggressore o fatto intendere qualche cosa di diverso da ciò che realmente desiderava. Bisogna disimparare a dare la colpa alla vittima perché, da questo punto di vista, il victim blaming tende ad essere interiorizzato e spesso porta le donne vittime di violenza a sminuire la situazione, a non parlarne e, quindi, a non denunciare. Vivendo così un'ulteriore esperienza di trauma.

Autoconvincersi di avere una qualche responsabilità o di esagerare nel valutare la propria condizione è un tipico esempio di victim blaming che spesso le donne rivolgono a sé stesse. Proprio perché socialmente indotte a farlo. La 18enne vittima di Genovese ha trovato il coraggio di denunciare. Chissà se l'eventuale risarcimento milionario – ancora non definito – potrà risanare i traumi subìti. È difficile crederlo con un’invalidità pari al 40 per cento, come quella riportata dalla vittima.

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Dottoressa Anna Vagli, giurista, criminologa forense, giornalista- pubblicista, esperta in psicologia investigativa, sopralluogo tecnico sulla scena del crimine e criminal profiling. Certificata come esperta in neuroscienze applicate presso l’Harvard University. Direttore scientifico master in criminologia in partnership con Studio Cataldi e Formazione Giuridica
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