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Violenze al carcere minorile Beccaria di Milano

I poliziotti che picchiano i minori detenuti al Beccaria li spingono solo a commettere altri reati dopo il carcere

Un ragazzo che, sbagliando, decide di prendere con la forza quelle possibilità che il mondo gli mostra ma che non gli concede, una volta finito al Beccaria, come pensate che ne uscirà se all’interno viene umiliato da chi ha una posizione privilegiata rispetto alla sua?
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Il 25 dicembre del 2022 sette minori detenuti nel carcere di Beccaria sono evasi. Era chiaro a tutti, a loro per primi, che non fosse un'evasione destinata a durare nel tempo. Quasi tutti loro, infatti, erano tornati a casa, probabilmente per trascorrere il Natale in un contesto più confortevole rispetto a quello di un carcere, seppur minorile. Già questo avrebbe dovuto (ma, ovviamente non l'ha fatto) aprire una riflessione sull'opportunità di recupero che lo Stato offre ai minori colpevoli di un qualche reato: è davvero la punizione più che la rieducazione l'obiettivo?

Ora, a distanza di un anno e mezzo, sappiamo che quell'ambiente non solo non era confortevole, ma era addirittura ostile a chi vi era detenuto. Sappiamo, in sostanza, da cosa scappavano quei ragazzi: dalle torture degli agenti della Polizia penitenziaria. Torture atroci difficili perfino da raccontare: ragazzi ammanettati con le braccia dietro la schiena e picchiati con sacchi di sabbia per non lasciare tracce, minori fatti spogliare e presi a cinghiate sui genitali fino a farli sanguinare. Giovani fatti avvicinare alle finestrelle del blindo e spray al peperoncino spruzzato direttamente negli occhi, così quasi per scherzo.

Un sistema che coinvolgeva 21 agenti su una cinquantina in servizio, un sistema collaudato, ampio, che godeva delle giuste protezioni. Un meccanismo che è stato inceppato soltanto dagli educatori del carcere e poi da una psicologa. E proprio questo dimostra che dietro quei pestaggi si cela soprattutto un diverso approccio al problema, reale, della violenza giovanile: chi, senza giustificare, vuole comprendere e rieducare e chi vuole punire, vendicarsi e magari sfogare anche un po' della propria rabbia.

A dicembre del 202 quei ragazzi infatti scappavano da chi pensa che con le umiliazioni e le punizioni si educhi. Un paradigma legittimato perfino ai più alti livelli delle istituzioni italiane. Un paradigma non solo sbagliato, illegale e incostituzionale, ma soprattutto inefficace.

Quelli dentro al Beccaria sono ragazzini per la maggior parte stranieri o, peggio ancora per loro, immigrati di seconda generazione. Peggio ancora per loro perché non sanno neanche quello da cui i loro genitori sono scappati, non lo hanno mai visto, e conoscono soltanto quello che non possono avere qui, nel loro Paese. Una sorte non molto diversa da quella dei loro compagni italiani da generazioni. E cosi hanno tanta rabbia dentro, rabbia che sfogano nel modo peggiore: perfino stuprando e uccidendo. E solo le vittime saprebbero dire, se entrambe potessero parlare, quale sia peggio delle due.

La loro rabbia deriva dalla continua umiliazione di sentirsi (ed essere trattati) da meno rispetto agli altri. Una rabbia che ha bisogno di essere smorzata, indirizzata, trasformata. Davanti a questi ragazzi invece si sono frapposte soltanto persone che hanno perpetuato altra violenza, accrescendo ancora di più quel senso di subalternità e quindi quella rabbia. Un ragazzo che, sbagliando, decide di prendere con la forza quelle possibilità che il mondo gli mostra ma che non gli concede, una volta finito al Beccaria, come pensate che ne uscirà se all'interno viene umiliato da chi ha una posizione privilegiata rispetto alla sua?

Quei pestaggi non avevano quindi nessuno obiettivo educativo, come pure alcuni poliziotti sostengono. Quelle torture avevano il solo scopo che gli agenti potessero sfogare le loro di frustrazioni, perché in realtà anche loro sono dei reietti, sfruttati e illusi di far parte di una società che in realtà li tiene ai margini e li usa per i propri scopi. E così, non appena ne hanno la possibilità, sfogano la propria rabbia con la stessa violenza con cui l'hanno sfogata le loro vittime.

La differenza, però, è che i poliziotti rappresentano lo Stato. Uno Stato che non è stato capace di articolare un sistema di controllo interno, lasciando – ad esempio – un penitenziario minorile senza un direttore per anni, con pochi educatori e pochissime attività ricreative. Uno Stato che non solo non è stata capace di dare a tutti le stesse possibilità, ma che non è neanche capace di dare ai propri cittadini più giovani (gli agenti indagati sono di poco più grandi dei detenuti) la speranza di qualche opportunità. Se non quella della delinquenza. E quei pestaggi ne sono l'ennesima dimostrazione.

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Giornalista dal 2012, attualmente sono capo area Milano a Fanpage.it. Già direttore responsabile di Notizie.it, lavoro nell'editoria digitale dal 2009. Docente e coordinatore dell'Executive Master in Digital Journalism dell'Università Umanitaria. Autore di tre libri inchiesta sulla criminalità organizzata. Nel 2019 ho vinto il "Premio Europeo di Giornalismo Giudiziario e Investigativo".
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