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“I miei figli mi hanno vista prendere fuoco”, Pinky, bruciata viva dall’ex, racconta il suo inferno

Parvinder Aoulakh è una donna indiana cresciuta in Italia. Oggi ha 33 anni, ma la sua vita ha rischiato di finire tragicamente il 20 novembre 2015, quando l’ex marito le ha dato fuoco con un accendino davanti ai figli di 3 e 5 anni.
A cura di Chiara Daffini
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Parvinder Aoulakh
Parvinder Aoulakh

Indossa un tailleur nero e le scarpe con il tacco, sotto s'intravede una t-shirt dove è stampato il viso di una donna, circondato da fiori e farfalle, ma con una grande X sulla bocca. Lo stesso divieto di aprirla che Parvinder Aoulakh, da tutti conosciuta come Pinky, si è imposta per anni subendo in silenzio la violenza del (ormai ex) marito.

"Ho 33 anni e origini indiane, sono arrivata in Italia con la mia famiglia quando ne avevo 6 – racconta la donna a Fanpage.it -. Ho frequentato la scuola in un paese della provincia di Brescia e dopo le superiori mi è stato imposto un matrimonio combinato".

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"La donna? Un peso"

"Essendo cresciuta in un paese libero come l'Italia – spiega Pinky – per me è sempre stato normale vestirmi all'occidentale, guidare la macchina, parlare l'italiano. Ma così non era per il mio ex marito, che aveva vissuto in India fino al nostro matrimonio".

"Quando è arrivato non sapeva la lingua, non era automunito, non trovava lavoro – continua – e la sua frustrazione la sfogava sull'alcol e su di me. Ma all'inizio credevo fosse normale gelosia, un periodo di assestamento".

"In realtà – riflette ex post – i primi campanelli d'allarme c'erano tutti, a partire dalla violenza psicologica: mi faceva sentire in colpa per essere una donna emancipata, mi isolava da tutti".

L'erede maschio

La situazione peggiora con la prima gravidanza. Pinky è emozionata all'idea di avere una bambina, ma il sesso della nascitura non piace alla famiglia del marito: "Abbiamo dovuto tenere nascosto il sesso fino alla fine e da lì in poi non ho più avuto tregua"

Nonostante l'arrivo del tanto atteso "erede maschio", a due anni di distanza, le cose non migliorano, anzi. "Una volta – ricorda Pinky – rientrai a casa con mezz'ora di ritardo perché avevo fatto gli straordinari al lavoro. Lui era fuori di sé".

"Mi prese – continua con la voce rotta -, mi spogliò completamente e mi chiuse fuori casa, in terrazza. Fu la prima di una lunga serie di umiliazioni".

"Lo perdonavo sempre"

Soprusi psicologici a cui iniziano ad affiancarsi quelli fisici. "Con la prima sberla – racconta la giovane donna – mi fece cadere a terra ma poi mi chiese scusa. E io lo perdonai. Così lo fece ancora. E ancora. Alternando spinte, calci, e bastonate".

Pinky sopporta in silenzio con una speranza: "Mi dicevo ‘Vedrai che cambierà, vedrai che migliorerà', volevo che i bambini avessero una famiglia unita".

Qualcosa si rompe quando l'uomo inizia a mettere le mani proprio addosso ai figli. "Non potevo sopportarlo – dice a Fanpage.it -, io sì ma loro no. Gli risposi a tono, lui mi picchiò violentemente e i vicini chiamarono la polizia e la mia famiglia".

"Per l'onore della famiglia"

Solo allora i genitori e i fratelli di Parvinder scoprono quello che lei da anni stava subendo, la portano a casa e la convincono a denunciare.

"Mi stavo preparando per andare in questura – ricorda Pinky -, quando arrivò mio zio. Si tolse il turbante, segno di massimo onore per noi sikh, e me lo mise ai piedi, dicendomi ‘Se non vuoi disonorare la tua famiglia tu adesso torni da tuo marito e gli chiedi scusa".

Nemmeno i genitori della ragazza riescono a opporsi davanti al gesto di posare il turbante e Pinky è costretta a obbedire. "Andai a casa della madre e del fratello di mio marito, mi fecero inginocchiare e chiedere perdono".

"Mia suocera – continua – sputandomi in testa mi disse: ‘Ora hai capito qual è il tuo posto? Ai nostri piedi. Lì la mia dignità scomparve totalmente".

L'accendino rosso

Passano circa quattro mesi e sembra non esserci limite al peggio. "Una sera se la prese con me perché non gli avevo dato lo stipendio, che non mi era ancora arrivato. Stanca, gli dissi che volevo rifarmi una vita con i miei figli", racconta Pinky.

"Se non sei mia non sarai di nessuno", la risposta dell'uomo, che inizia a cospargere Parvinder di diavolina liquida, un potente infiammante. "Cercavo di scappare ma tutte le porte erano chiuse e non c'erano le chiavi", ricorda con terrore.

"Riuscii a uscire in giardino dalla porta finestra nella camera dei bambini, ma poi mi fermai pensando ‘E se fa qualcosa a loro? Che senso avrebbe vivere senza i miei figli?".

Nemmeno il tempo di mettere in ordine questi pensieri che il marito è già dietro di lei: "Aveva un accendino rosso – dice Pinky – ricordo le fiamme, un calore fortissimo, io che cadevo a terra".

"Dio, dammi una seconda possibilità"

E proprio nell'accasciarsi al suolo Pinky incrocia lo sguardo dei suoi bambini che gridano davanti alla porta: "La più grande, 5 anni, tappava gli occhi al fratellino, stavano vedendo la loro mamma prendere fuoco".

"Ho pregato Dio di darmi una seconda possibilità, di farmi vivere per loro", dice piangendo la donna. "E deve avermi ascoltata".

Segue un mese e mezzo di coma, ustioni sul 90 per cento del corpo e un tragico risveglio: "Ero legata, perché non mi toccassi le ferite, non avevo più la voce dopo la tracheotomia, non sapevo se ero viva o morta".

Fortunatamente Pinky riesce a tornare a casa dai suoi piccoli, che nel frattempo sono stati affidati ai nonni e agli zii, ma faticano a riprendersi dallo shock: "Non dormivano più", ricorda.

La violenza di genere vive innanzitutto di silenzio
La violenza di genere vive innanzitutto di silenzio

"Le mie cure sono considerate estetica"

Nonostante le sue condizioni fisiche sembrino migliorare, Parvinder affronta la depressione e deve presto interrompere le cure: "Venivano considerate chirurgia estetica e non coperte dalla mutua, non potevo permettermele, dovevo tornare a lavorare, non ricevendo alcun sussidio dallo Stato".

Arrivano anche i primi giudizi della comunità sikh: "Dopo una solidarietà iniziale, molti dicevano che avrei dovuto tornare da lui, perdonarlo, farlo scarcerare".

"Però – precisa Pinky – avevo il sostegno della mia famiglia e questo mi bastava. Decisi di andare fino in fondo, continuare il processo, che si svolse con rito abbreviato condannandolo a 15 anni di carcere".

Oggi, tra paure e progetti

Sono trascorsi otto anni e oggi Pinky è una donna meravigliosa. Ma le cicatrici, fuori e dentro, rimangono: "Ammetto di avere paura – dice a Fanpage.it -. Ogni anno lui chiede i domiciliari e prima o poi glieli daranno. Temo per quando uscirà, per i miei figli".

Intanto però a darle forza c'è la missione di aiutare altre donne: "Con Wall of dolls – spiega – facciamo diverse raccolte fondi per progetti di sostegno alle vittime di violenza. Io do loro una mano ascoltandole e indirizzandole verso i centri antiviolenza".

Ma il messaggio più forte arriva dalle connazionali di Pinky e da tante donne straniere, ancora più vulnerabili alla violenza di genere perché spesso isolate: "Molte ragazze mi hanno scritto ringraziandomi per essere la voce che loro ancora non riescono ad avere".

"Nel complesso – conclude – sono soddisfatta di me, non cambierei nessuna decisione presa, guardo solo ai nuovi obiettivi da raggiungere".

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