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I lavoratori delle carceri sulle psicologhe indagate per il caso Pifferi: “La Procura ci vuole intimidire”

I professionisti delle carceri milanesi hanno inviato una lettera aperta ai giudici in merito alle psicologhe indagate per falso per il caso Alessia Pifferi. I 102 firmatari sostengono che queste accuse hanno “come risultato l’intimidazione di tutti gli operatori”.
A cura di Enrico Spaccini
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Alessia Pifferi in tribunale
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Sono 102 i professionisti legati a vario titolo all'ambito penitenziario che hanno firmato la lettera aperta indirizzata alla procuratrice generale di Milano Francesca Nanni e alla presidente del Tribunale di Sorveglianza Giovanna Di Rosa per esprimere la loro "preoccupazione rispetto al procedimento in corso a carico di due operatrici sanitarie, che prestano il loro servizio professionale nella Casa Circondariale di Milano San Vittore". Il caso a cui associazioni, sindacati, preti e politici fanno riferimento è quello che riguarda le due psicologhe indagate per falso e favoreggiamento. Le due dottoresse, secondo il pm Francesco De Tommasi, avrebbero aiutato mediante un test falsificato Alessia Pifferi, d'accordo con l'avvocata, a ottenere la perizia psichiatrica per la donna a processo per aver lasciato morire la figlia Diana. Secondo i firmatari, questa operazione "ha come risultato l'intimidazione di tutti gli operatori e rischia di intaccare la fiducia nel loro operato da parte delle persone detenute e dell'opinione pubblica".

La lettera aperta dei 102 professionisti

Le due psicologhe risultano indagate per falso ideologico e favoreggiamento dalla Procura di Milano. Secondo l'accusa, le dottoresse avrebbero sottoposto Pifferi a un test per valutare il quoziente intellettivo senza averne la facoltà e con il solo intento di ottenere per la loro paziente una perizia psichiatrica. Secondo il pm, avrebbero agito in accordo con l'avvocata della detenuta e per questo motivo risulta indagata anche la legale.

"Ci preoccupa che chi dedica con fatica la propria professionalità per realizzare il mandato che la legge attribuisce al carcere, venga colpito nell'esercizio del proprio lavoro", si legge nella lettera aperta inviata alla procuratrice generale Nanni e alla presidente del Tribunale di Sorveglianza Di Rosa.

Le firme in tutto sono 102 e tra queste ci sono quelle dell'intera Cappelania presso la casa circondariale San Vittore, la Cgil di Milano, il Consiglio direttivo della Camera penale milanese e il Coordinamento nazionale comunità d'accoglienza Lombardia (Cnca). Oltre a loro, i colleghi psichiatri e terapeuti dei carceri di Opera, Bollate, del minorile Beccaria e i consiglieri comunali Alessandro Giungi e Simonetta D'Amico.

"Il problema più grande è la gestione della popolazione detenuta"

Per chi lavora in carcere, continua la lettera, è chiaro come "il problema più grande con cui si sta confrontando il sistema penitenziario è la gestione di una popolazione detenuta con un altissimo tasso di malattia psichiatrica o con ritardo cognitivo". Per questo motivo i firmatari si domandano quale sia il motivo di "penalizzare la condivisione di informazioni" da parte degli "operatori sanitari del carcere nei confronti dell'Autorità Giudiziaria".

Secondo loro, questa pratica non solo non è da penalizzare, ma piuttosto "da incentivare" in modo tale da poter "disporre gli opportuni accertamenti, necessari a un pronunciamento equo". Nella missiva si dà risalto anche all'importanza della figura dello psicologo in carcere, dove i suicidi sono un problema ancora difficile da affrontare: "Senza il loro apporto i numeri sarebbero tragicamente più alti, le psicologhe e gli psicologi in carcere salvano vite".

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