“Mi abbuffavo e vomitavo o digiunavo, ma non mi ritenevo abbastanza malata”: Chiara racconta i disturbi alimentari
La mattina del 15 marzo 2010 Stefano Tavilla trovò sua figlia Giulia, 15enne, morta nel letto. Aveva avuto uno scompenso cardiaco, conseguente alla malattia da cui era affetta, la bulimia nervosa. Questo papà ha fatto della lotta per il diritto alla cura dei disturbi alimentari una ragione di vita e grazie a lui è nata, tra le tante iniziative, la Giornata nazionale del fiocchetto lilla per la sensibilizzazione sui disturbi alimentari, che si celebra il 15 marzo.
Tredici anni sono passati da quel giorno terribile per Stefano e qualche passo è stato fatto, ma "c’è ancora molta strada da fare per garantire un’assistenza diffusa a pazienti e famiglie in tutte le regioni italiane". A dirlo è Laura Dalla Ragione, psichiatra e direttrice della Rete Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA) Usl1 dell'Umbria.
“Nei primi anni 2000 le persone che soffrivano di disturbi dell’alimentazione in Italia erano circa 300mila, oggi sono oltre 3 milioni – dice Dalla Ragione -. Un trend in aumento soprattutto tra gli adolescenti, per i quali le diagnosi correlate ai disturbi dell'alimentazione e della nutrizione rappresentano in Italia la seconda causa di morte dopo gli incidenti stradali, con 3.780 decessi nel 2023″.
"Un fenomeno drammatico – continua Dalla Ragione – che si è aggravato ulteriormente durante la pandemia e i lockdown: i dati del Ministero della Salute ci dicono che c’è stato un aumento del 30 per cento di casi, soprattutto tra i giovanissimi. Il Numero verde nazionale “SOS disturbi alimentari”, lo 800-180969, un servizio anonimo e gratuito a disposizione di tutti, segnala un drastico aumento di richieste di aiuto, raddoppiate nel 2020 e triplicate nel 2023”.
Malattie, quelle legate al rapporto con il cibo, spesso invisibili, perché non tutte le persone che ne soffrono hanno un fisico deperito o sono in sovrappeso. È il caso di Chiara Tanzariello, 26enne milanese che ha raccontato a Fanpage.it la sua esperienza con la bulimia nervosa.
Quando hai iniziato a non stare bene?
"I primi segnali già li avevo percepiti verso i 14 anni, perché iniziavo a non vedermi abbastanza magra. Mi ricordo che dopo un periodo in cui ero stata due settimane a Londra con le mie amiche ed ero ingrassata, tornata in Italia avevo passato le tre settimane successive a digiunare. E a quel punto è scattato qualcosa".
Che cosa?
"Da lì sono iniziate le mie lotte con il cibo e con il peso, ma è a 19 anni che la situazione si è fatta molto seria. Ero in Spagna e vomitavo ogni giorno. Eppure ero in un posto molto bello, stavo facendo un'esperienza con i cavalli in un maneggio ed era tutto quello che desideravo, ma probabilmente sentivo ancora dentro il senso di inadeguatezza per aver abbandonato l'università, dal momento che non mi sentivo abbastanza capace".
Che rapporto avevi con il cibo?
"Mangiavo e vomitavo, era diventata una sorta di punizione che mi davo ogni volta che ‘sgarravo': se mangiavo un biscotto in più io assolutamente dovevo vomitarlo. Non mi accettavo, continuavo ad avere dei periodi di abbuffata alternati a digiuno, che si autoalimentavano tra loro. Era una sorta di fame nervosa: non mangiavo per fame fisica, ma perché non volevo pensare a niente ed era come se mi illudessi di reprimere i pensieri riempiendomi di cibo".
Quando ti sei accorta di non stare bene hai chiesto aiuto?
"Non subito. Il fatto che fossi bulimica non è che mi rendesse più magra o più in carne, non cambiava niente sul mio aspetto fisico. E questo, il fatto che non si vedesse che avessi un problema, mi faceva credere di essere come tutti gli altri. In particolare c'è stato un episodio che mi ha fatto veramente riflettere. In seguito a dei rapporti sessuali ho avuto problemi addominali fortissimi e quando sono andata dalla ginecologa le ho fatto presente che forse poteva c'entrare il fatto che vomitassi. Lei mi ha detto che sì, poteva c’entrare, e che avrebbe chiamato la psicologa, presente nella stessa struttura. Quando l'ha chiamata, mi ha presentata come un soggetto a vedersi ‘non tanto problematico'. E anche la psicologa rispose ‘Sì, a vedersi non mi sembra grave come cosa'. Eppure vomitavo tutti i giorni".
Avevi qualcuno vicino?
"In quegli anni ho avuto una persona che non era cattiva, semplicemente non mi amava. E ho fatto di tutto per attirare la sua attenzione. Il mio scopo era dimagrire perché pensavo che magari dimagrendo sarei stata più bella e l'avrai finalmente conquistato. Questa persona in realtà non mi ha mai fatto sentire troppo in carne, non mi ha mai detto niente sul mio corpo, ma il fatto che non mi amasse per me era una conferma che non fossi mai abbastanza".
E le altre relazioni come andavano?
"Non ne parlavo molto con gli amici, ci ho impiegato un po’. Molto problematica è stata invece la questione familiare, perché quando ho cercato di dirlo a mia madre lei non ci ha creduto. Diceva che non mi aveva mai sentita né vista e io mi ricordo che le avevo risposto ‘Devo tenere la porta aperta?', ‘Allora mi devo far vedere da te mentre sto male'. La mia famiglia mi aveva sempre vista come una persona che ce la fa sempre. Quindi era impossibile io avessi qualcosa.
Per loro la mia malattia non era reale, quindi neanche per me lo era. Quindi mi davo sempre più colpe: avevo voglia di mettermi in gioco, di risolvere la situazione, ma non mi vedevo abbastanza malata. In realtà, nel momento in cui sono entrata in terapia, la prima cosa che mi è stata detta dalla psicoterapeuta è stata che quando senti di avere un problema vuol dire che sei già dentro il problema. Non devi aspettare che qualcuno ti dica che veramente stai male per chiedere aiuto".
E per tu quando l'hai chiesto?
"Il giorno dei disturbi alimentari (15 marzo, ndr) avevo ascoltato qualcosa in una diretta su Instagram, che parlava appunto di queste malattie. E mi ricordo che dopo aver vomitato quel giorno una quantità di volte assurda, ero stesa sul letto e mi sono detta ‘devo fare qualcosa'. Qualsiasi cosa era un peso per me, avrei solo voluto mangiare e stare tranquilla".
Quindi cos'hai fatto?
"Ho scritto un messaggio su Instagram a un'associazione che si chiama ‘Mi nutro di vita' e il ragazzo che mi ha risposto mi ha dato il numero di una psicoterapeuta. L'ho chiamata e da lì è iniziato il mio percorso che è stato faticoso e molto ampio, ma mi ha portata a una maggiore consapevolezza verso me stessa, verso le mie dinamiche familiari e relazionali".
Oggi come stai?
"Riesco a mangiare una pizza o bere una Coca-cola senza impazzire. In realtà ho paura a dire che ne sono uscita, ma non ho più troppa ansia. Ci penso ancora quando mangio, ma non è più un'ossessione e penso che questo risultato sia grazie al percorso che ho fatto, perché parlare, accettare che cosa ci fosse dentro di me, è stato veramente duro. Non volevo essere una persona che sbagliava e ho dovuto imparare che l'uomo sbaglia e non mi devo punire se lo faccio io".