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Omicidio di Giulia Tramontano

Gli inganni di Impagnatiello continuano durante il processo, mentre mostrano le foto di Giulia Tramontano

In questa seconda udienza del processo a Impagnatiello, il suo crollo è avvenuto quando sullo schermo, che è piazzato dal lato opposto della gabbia con le sbarre, sono comparse le foto del corpo di Giulia Tramontano. Se pianga per sé, o per altri, non è dato saperlo.
A cura di Piero Colaprico
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La cenere di Giulia. Cenere sulla porta di casa e sulle scale del condominio. Cenere nel garage e cenere nella cantina. Eppure, Alessandro Impagnatiello, come un prestigiatore, come un killer professionista, come il mister Hyde del dottor Jekill, è riuscito, finché ha potuto, a superare ogni crisi di panico, ogni incertezza, ogni contraddizione.

Ha lasciato dietro le sue spalle la cenere di Giulia Tramontano, la donna con cui stava per avere un figlio. Ha ammazzato, occultato e cercato di struggere il corpo e, in quei giorni di incubi e dolore e anche dopo, quando gli hanno messo le manette, non ha mai pianto. Adesso, invece, piange. Da prosciugato che era, è diventato un fiume: due udienze ci sono state, e due udienze sono che china la testa e non si trattiene.

Nella prima, il 18 gennaio, ha singhiozzato davanti ai giudici togati e popolari: e la parola, quella che aveva lamentosamente chiesto per porgere delle scuse irricevibili, gli si era inceppata più volte. In questa seconda udienza, il crollo nervoso. È avvenuto quando sullo schermo, che è piazzato dal lato opposto della gabbia con le sbarre – memoria dei processi al terrorismo, ai boss della Duomo connection e della ‘ndrangheta – e accanto allo scranno della pubblica accusa, è comparso un corpo: quel corpo.

Il corpo che ha perso sangue, a causa delle 37 coltellate. Il corpo che ha subito i tentativi, falliti, di distruzione con il fuoco. Il corpo di Giulia Tramontano che portava in grembo il corpicino del piccolo Thiago, il nascituro che il padre voleva ammazzare, e da mesi, con il veleno per topi.

Il corpo di una persona con cui si sono divise le notti e i giorni, la tavola e il letto, le vacanze e la quotidianità: e Giulia, ancora riconoscibile, appare sullo schermo, avvolta in sacchi di plastica gialla e plastica nera. E da là è Giulia, non più corpo e basta, che accusa l’assassino. E lui, da dietro le sbarre, l’ha vista.

Una specie di campionario dell'Arma è stato chiamato per raccontare i fatti così come sono emersi da quel 27 maggio di un anno fa. Il maresciallo della sezione Omicidi di Milano; il maresciallo comandante dei carabinieri di Senago; il brigadiere della stazione; un altro militare incaricato del pattugliamento in auto e che troverà il corpo di Giulia Tramontano. Ognuno nel proprio ruolo, i quattro hanno tolto all’imputato – se mai l’avesse immaginato – qualsiasi possibilità di lasciar credere a una sorta di impeto, d’improvvisazione, di abisso istantaneo nel quale, impulso dopo impulso, sarebbe precipitato.

Gli inganni di Impagnatiello forse – sottolineiamo: forse – avrebbero potuto reggere qualche decennio fa, quando non esistevano le telecamere, i telefonini con la geolocalizzazione e, soprattutto, il Dna come prova forense era molto al di là da venire. Oggi è più facile lasciare tracce. Le menzogne, le allusioni, le fantasie si sbriciolano davanti alle contestazioni, alle verifiche, al mestiere di chi indaga: "Quando una denuncia di scomparsa non convince sino in fondo, la nostra linea di comando è che si dispone subito l’intervento della sezione Omicidi e così siamo stati avvisati", spiega il maresciallo.

E così il barman, che aveva ucciso Giulia sabato sera, che aveva utilizzato il suo telefonino per mandare falsi messaggi, che aveva parlato di un "confronto pacifico" mentre emergeva il suo tradimento con una collega, che aveva raccontato di essere uscito nella notte per comprare droga in un inesistente numero di viale Certosa, non si è ritrovato davanti solo i pochi carabinieri del paese, che magari l’avrebbero beccato lo stesso, ma i detective di via Moscova. Ed è finito in trappola.

Quel suo allarme"Giulia non si trova" – non convince i carabinieri e "la cosa più urgente è acquisire tutte le telecamere della zona", dando ai fotogrammi – spiega il maresciallo di Milano – un orario preciso. Il 30, martedì, viene risentita la collega di Impagnatiello, per fissare la sua versione. E il 31, ecco che compare il "luminol" e la casa dove abitavano insieme Impagnatiello e la sua vittima, il box, la macchina si colorano di blu: la reazione del ferro dell'emoglobina del sangue rivela l'aggressione. La "linea di comando" travolge la sgrammaticata trincea del barman e Impagnatiello confessa, quindi il maresciallo della Omicidi anche trova la patente e le carte di credito di Giulia, che sono in un tombino. E l’altro maresciallo, quello di Senago, ha già rinvenuto il topicida.

Nell’aula del processo da ergastolo risuona una drammatica verità: "Impagnatiello ha fatto una ricerca su Internet e la domanda era: ‘Quanto veleno per topi è necessario per uccidere una persona?'". L’autopsia, eseguita su Giulia Tramontano, rivela la "positività" proprio al veleno per topi comprato dal suo convivente. Altre indagini hanno riguardato l'acquisto di una bottiglia di cloroformio. Acquisto effettuato, sotto falso nome, a febbraio, due mesi prima dell’omicidio, proprio mentre all’aeroporto di Malpensa il futuro carnefice attendeva l’arrivo della sua inconsapevole e innamorata vittima.

I quattro carabinieri, una vicina di casa, l’uomo delle pulizie del condominio, che racconta di aver pulito la cenere, ma poi la cenere è ricomparsa – Impagnatiello spostava il corpo con lucida determinazione – esattamente dove aveva passato lo straccio sono stati i primi sei testimoni dell’accusa. Nella prossima udienza, il 7 marzo, parlerà A., la collega di Impagnatiello: anche lei era convinta di essere "la sua fidanzata". Almeno sino a quando ha chiesto spiegazioni, ha reagito, ha protestato e allora Impagnatiello, quello che credeva il suo innamorato, ha osato mostrare un falso test di paternità: per assicurare ad A. che con l’altra, con Giulia, sì, era proprio finita, e che il figlio di lei non era suo, ma di un altro, sì, di un altro, non il suo. Parole che suonavano fasulle.

"Voglio solo sapere se stai bene" è l’ultimo messaggio che A. manda a Giulia. Si erano viste e sentite. Una solidarietà femminile che fa chiudere con rammarico gli occhi al maresciallo della Omicidi: "Quell’ultimo messaggio – dice alla Corte d’assise – risulta non recapitato". Giulia era nella vasca da bagno, già morta, e là Impagnatiello voleva farla diventare cenere. Ma quella cenere era dovunque, in quella casa di Senago e sembra che sia volata sin qui, in un palazzo di giustizia ammutolito, volata sino alla cella dove l’assassino ha piegato la testa sul petto ed è scoppiato in lacrime. Se pianga per sé, o per altri, non è dato saperlo.

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Piero Colaprico. Liceo al collegio Morosini, laurea in legge a Milano, assunto nel 1985 da Repubblica, nominato nell’89 inviato speciale, nel 2006 responsabile del settore nera e giudiziaria, nel 2017 capo della redazione. Si è dimesso nel ’21, mantenendo varie collaborazioni giornalistiche. Scrittore di gialli e noir, ne ha scritti 15, alcuni tradotti in inglese, francese, romeno. Da un suo saggio, “Manager calibro 9”, è stato tratto il film “Lo spietato”. Scrive anche per il teatro, attualmente è direttore artistico del teatro Gerolamo, storica sala milanese.
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