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Gli appelli alla donna che ha lasciato Enea in ospedale non sono per forza un attacco contro di lei

Il caso di Enea, il bimbo affidato all’ospedale Mangiagalli di Milano, presenta una peculiarità che non si più tralasciare e che fa assumere alla donna che l’ha partorito un altro significato.
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Il caso del bimbo affidato alle cure dell’ospedale Mangiagalli di Milano, a differenza di altri, ha scatenato due contrapposte reazioni. Da un lato chi si è dichiarato disponibile, più o meno pubblicamente, a fare qualcosa per la donna, affinché ci possa ripensare. Dall’altro chi ha criticato i primi perché, così facendo, starebbero mettendo in discussione la libertà della donna di non riconoscere il figlio.

Tuttavia il caso presenta una peculiarità che non si può tralasciare: la donna ha voluto lasciare una lettera accanto al bambino. Poteva non farlo. L’ha voluta lasciare lei quella lettera, con la stessa forza con cui ha scelto di affidare, anonimamente, all'ospedale il bimbo. Quindi vanno tenute in considerazione entrambe le scelte.

E nella lettera ci sono scritte frasi molto chiare. La prima: "La mamma mi vuole bene, ma non mi può seguire". "Può", non "non vuole" (come pure sarebbe stato legittimo, sia ben inteso).

La seconda: "Sono nato in ospedale perché la mia mamma voleva essere sicura che era tutto ok e stare insieme il più possibile". "Stare insieme il più possibile" non è di certo il desiderio di una donna che, legittimamente, non vorrebbe crescere il proprio figlio.

Allora che questa donna non potesse tenerlo più che non volesse tenerlo è lei stessa a dirlo, in quella lettera che appunto ha lasciato accanto al bambino per sua esplicita volontà. E che anche chi ha lavorato per tanti anni in quel reparto giudica "una richiesta d'aiuto", proprio perché "nella mia lunga carriera non ho mai visto che la madre affidasse il piccolo all'ospedale accompagnato da una lettera così tenera".

Inoltre la maggior parte delle donne che, legittimamente, non vogliono avere figli decidono di non riconoscerli subito dopo il parto, quando la legge garantisce loro comunque il totale anonimato. Mentre in questo caso la donna ha prima portato via il bimbo e poi lo ha affidato alla cura dei medici tramite la Culla per la vita.

Far finta, allora, che quella lettera non ci sia e leggere la scelta di questa donna alla stregua di quella di tante altre che non vogliono, legittimamente, crescere i figli è molto difficile. Ed è ipocrita nascondersi dietro alla necessità di tutelare la privacy della donna (di cui comunque non si sa nome, età, nazionalità, colore dei capelli e degli occhi, giustamente non si sa nulla) per non ammettere che ancora oggi, nel 2023, e perfino a Milano diventare genitori possa essere molto complicato.

E no, non solo per motivi economici (se è sbagliato dare per scontato che quel "non mi può seguire" sia dovuto a problemi economici è altrettanto sbagliato escluderlo a priori), ma anche per molti altri motivi che comunque nessuno si preoccupa di risolvere.

Qualunque siano le motivazioni per cui la donna ha deciso di affidare il bambino all'ospedale e non tenerlo con sé sembra infatti una scelta indotta da qualcosa che le impediva di sentirsi in grado nell’essere madre. Qualcosa che l’ha portata a pensare che altri potessero prendersene cura meglio di lei.

E allora assumono un altro significato gli appelli di chi, a partire dal primario del reparto, le promette aiuto (non solo e non per forza economico) per darle quella possibilità che, in questo momento, a lei sembra di non avere. Non sono un ricatto per costringerla alla genitorialità, ma un’opportunità che lei può decidere o meno di cogliere.

E criticare lo Stato perché non assiste le persone quando hanno figli non può andare bene soltanto il giorno in cui escono, per l’ennesima volta, i nuovi allarmanti dati sul calo della natalità. Lo si deve fare anche partendo da una lettera come quella che, volontariamente (è bene ribadirlo), una donna ha lasciato accanto a un bambino da lei partorito per dire che "non può seguirlo", non che non vuole, anche se è voluta "stare insieme a lui il più possibile".

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Giornalista dal 2012, attualmente sono capo area Milano a Fanpage.it. Già direttore responsabile di Notizie.it, lavoro nell'editoria digitale dal 2009. Docente e coordinatore dell'Executive Master in Digital Journalism dell'Università Umanitaria. Autore di tre libri inchiesta sulla criminalità organizzata. Nel 2019 ho vinto il "Premio Europeo di Giornalismo Giudiziario e Investigativo".
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