“Giulia stava morendo di anoressia, ma ha aspettato 6 mesi il ricovero”: il racconto dei genitori
"Ho iniziato ad accorgermi che qualcosa non andava appena dopo il lockdown – racconta a Fanpage.it Federica Bottini, mamma di Giulia -. Mia figlia aveva iniziato a selezionare ed eliminare alcuni alimenti, le chiesi perché e mi rispose che si sentiva fuori forma dopo settimane chiusa in casa a pasticciare".
Se inizialmente il cambiamento non allarma più di tanto i genitori, nell'agosto del 2020 i problemi di Giulia, allora 13enne, diventano evidenti: "Eravamo al mare – ricorda la madre – e aveva smesso totalmente di mangiare e di bere. Preoccupati l'abbiamo subito portata da una psicologa, che le ha diagnosticato l'anoressia".
Ma è solo il primo di una lunga serie di annunci dolorosi. "Per la prima visita a pagamento da uno specialista – riferisce Federica -, avremmo dovuto aspettare due mesi, Giulia aveva perso 15 kg in dieci giorni e così decidemmo di portarla al pronto soccorso".
Giulia chiedeva aiuto
"In ospedale – spiega la mamma a Fanpage.it – monitoravano Giulia per il cuore e i reni, ma lei aveva bisogno di un aiuto psicologico, infatti stava continuando a perdere peso".
Nonostante la sua giovane età, Giulia si rende conto di non potercela fare da sola e chiede ai genitori di portarla in una comunità terapeutica. La differenza rispetto all'ospedale e alle cliniche convenzionate sono programmi centrati sulla riabilitazione psicologica e nutrizionale e degenze che in genere durano oltre un anno.
Ma le comunità terapeutiche per i disturbi alimentari in Italia sono pochissime. Tre si trovano in Lombardia e ad esse devono fare riferimento anche le pazienti e i pazienti delle tante altre regioni sguarnite. Ne conseguono liste d'attesa lunghissime, anche e soprattutto per chi ha la residenza in Lombardia.
"I posti dedicati per i pazienti lombardi sono solo una piccola parte – spiegano a Fanpage.it i genitori di Giulia – e l'iter burocratico per accedervi è infinito".
Nello specifico, serve l'autorizzazione da parte dei servizi di salute mentale di competenza: "Ma spesso – precisa Federica – le varie strutture si rimbalzano tra loro scaricandosi la responsabilità dell'invio e intanto il tempo passa".
Da 9 a 12 mesi di attesa
Ottenute finalmente la relazione di invio e l'idoneità per Giulia a essere ricoverata, arriva un'altra doccia fredda. "Ci avevano detto ‘ok, possiamo ricoverare vostra figlia, ma ci vorranno dai 9 ai 12 mesi di attesa‘".
"Io e mio marito – continua Federica – ci siamo guardati e abbiamo detto ‘Nostra figlia è spacciata, è morta', visto che era in carrozzina e non riusciva nemmeno più a parlare".
"Di notte – ricorda la mamma della ragazza – non dormivo per controllare che il suo cuore battesse ancora. Sapevo che avrei potuto perderla da un momento all'altro".
L'alternativa è entrare a pagamento: "Ma noi non potevamo permettercelo – spiegano i genitori -, il ricovero in quella comunità costava 300 euro al giorno e avevamo già speso tutti i nostri risparmi per farla visitare da specialisti in privato".
La "fortuna" di Giulia
Giulia è "fortunata", perché i suoi genitori non si arrendono e si battono ogni giorno per cercare di accorciare un tempo che la ragazzina proprio non ha.
"Dopo sei mesi – riferisce la mamma – finalmente è stata ricoverata in una comunità del Varesotto. Quel giorno ho pianto tutte le mie lacrime, non sapevo se l'avrei rivista, ma oggi ringrazio i medici che me l'hanno salvata".
"Noi siamo stati fortunati, al contrario di altri che non hanno più i loro figli – aggiunge Ennio Borin, papà di Giulia -, ma finché non vivi questa malattia pensi sia un capriccio, non ti rendi conto. Io stesso all'inizio mi chiedevo cos'avessi fatto di male' per meritarmi questo".
E poi c'è la solitudine: "I genitori delle amiche di Giulia – continua Ennio – tenevano le loro figlie lontane dalla nostra per paura che fosse "infettiva". Ci siamo sentiti molto abbandonati e incompresi".
Per questo Federica e Ennio si sono uniti ad altri genitori che hanno vissuto o stanno vivendo questa dolorosa esperienza e hanno fondato l'associazione Ananke Family.
"Vogliamo fare qualcosa di concreto – spiegano -, compreso aiutare le famiglie che non riescono ad accedere alle cure e sono disperate: nessuno deve essere lasciato solo".