Giornata della memoria: la storia di Giovanni Oggionni, l’operaio partigiano che si oppose a Mussolini
Ci sono stati operai che nelle fabbriche e aziende di Italia si sono opposti al regime fascista appoggiando invece la lotta partigiana. Tra questi c'era anche Giovanni Oggionni, operaio della Falck di Sesto San Giovanni, una grossa azienda metallurgica a pochi chilometri da Milano. Ogni giorno, anche quando faceva il turno di notte, prendeva la bicicletta e faceva 20 chilometri raggiungendo il posto di lavoro partendo dalla sua casa di Ornago, in Brianza, dove viveva con la moglie Rosa e le sue quattro figlie: Ernesta di sette anni, Clementina di tre, Teresa di due e Adele di pochi mesi. Con la salita al potere del regime fascista Giovanni si oppose alla dittatura, si era iscritto alla Brigata Garibaldi pur non partecipando alla lotta armata. Si schierò subito dalla parte dei partigiani: "Partecipò alle lotte di classe, agli scioperi e nello stesso posto di lavoro entrò a far parte del Consiglio di fabbrica", così preciserà sua figlia Clementina in "Cicatrici", nel racconto in cui spiega quanto accaduto al padre. Nel pieno del regime fascista in fabbrica iniziarono a mancare persone: ogni giorno scomparivano sempre più operai. Non ci volle molto per capire che, su accordo di alcuni vertici dell'azienda, erano iniziate le razzie per chiunque si opponeva a Mussolini.
L'arresto e la deportazione
Era il marzo del 1944, erano i giorni in cui nei paesi della Brianza giravano le notizie di partigiani arrestati e catturati. I nazisti passavano di casa in casa con i manganelli per costringere uomini e donne con la forza a svelare i nascondigli dei partigiani. Due carabinieri bussarono alla porta della famiglia Oggionni il 27 marzo di quello stesso anno. "Erano due carabinieri in bicicletta – si legge nel racconto di Clemnetina -. In cortile cominciarono a gridare il nome del papà, ma non vedendo nessuno, bussarono a tutte le porte finché arrivarono alla nostra. La mamma e il papà si erano già svegliati dal tanto rumore. I militari dissero a papà di seguirlo e lui, senza opporre resistenza, andò via con loro. Conosceva la situazione degli altri suoi compagni". Cosa accade a Giovanni è una delle storie dei tanti italiani coraggiosi che gridarono NO alla dittatura. Giovanni fu portato al carcere di San Vittore a Milano: qui rimase circa un mese e trovò altri suoi compagni di lavoro.
Poi la deportazione: vennero caricati su un treno del trasporto bestiame in stazione a Milano. Fecero sosta a Brescia e a Bolzano. In entrambe le città riuscì a scrivere alla famiglia, fu l'ultima volta. Viaggiarono ammassai a migliaia per più di dieci giorni, senza possibilità di contatti esterni e senza essere informati della destinazione. Fino a quanto il treno si fermò in un luogo sconosciuto: come scrive Clementina, il padre si trovò davanti a uno squadrone di militari tedeschi con manganelli in mano e grossi cani al guinzaglio. Vennero incolonnati per una strada molto ripida, camminarono per sei chilometri. Fino a quando non videro una "fortezza" sulla cima di una collina. Sul portone appesa un'aquila di ferro con sotto una svastica. Fu in quel momento che capirono la destinazione.
Nei minuti successivi parte di loro loro vennero mandati alle docce, li rasarono e li lavarono con acqua fredda e un liquido che faceva bruciare la pelle. E ancora: i dormitori con letti di legno e quella divisa con stampato sulla schiena un triangolo rosso, il segno dei deportati politico. Da quel giorno il nome di Giovanni diventò il numero 63.785. Era nel campo di sterminio di Mauthausen, in Austria.
Il ritorno a casa
A Mauthausen Giovanni ci restò poco. "Abbastanza però per capire che cosa accadeva nei grossi forni inceneritori. Per molti era l'unico modo per uscire dal campo. Più ne bruciavano e più ne arrivavano di nuovi". Giovanni dopo poche settimane fu trasferito in un campo a Gusen e poi a Wiener Neustad, a circa 20 chilometri da Mauthausen. Nel nuovo campo di prigionia si producevano armi e si lavorava per oltre 12-15 ore al giorno: si mangiava solo una volta, una brodaglia e un pezzo di pane nero. Qualcosa cambio quando tutti i prigionieri a piedi furono costretti a rientrare a Mauthausen: chi non riusciva a camminare li uccidevano. Il 5 maggio del 1945 arrivarono i militari americani nel campo a liberarli. Giovanni riuscì a tornare a casa due mesi dopo, venne ricoverato all'ospedale di Vimercate, in Brianza. Il portinaio corse a informare la famiglia. La moglie Rosa corse da lui: la figlia maggiore fu molto turbata nel vederlo in quelle condizioni. Per questo la decisione di Rosa e Giovanni di scattare una foto alle sue figlie permettendo così a lui di vederle senza costringere loro di andare in ospedale. Purtroppo Giovanni morì il 14 luglio del 1945, quattro giorni dopo l'arrivo a Vimercate, a soli 33 anni.
La pietra d'inciampo in onore di Giovanni
"Diventate adulte, noi figlie cresceva sempre di più con il desiderio di conoscere la vita vissuta nei lager. Siamo anche andate a visitare Mauthausen, qui ci hanno descritto gli orrori. Ci hanno spiegato come funzionavano i forni crematori, le camere a gas e tutte le rappresaglie pensate proprio in modo da annullare la persona umana". Oggi la storia di Giovanni viete raccontata nei libri, così come quelle degli altri operai della Falck che si opposero al regime organizzando scioperi e lotte partigiane. "Anche la mamma, pur sapendo che quello che faceva il papà era molto pericoloso, non si oppose mai alla sua scelta. Anzi cercava sempre di dargli coraggio e di nascondere in casa i volantini che il papà avrebbe distribuito al lavoro", spiega ancora Clementina. Oggi 27 gennaio 2022 a Ornago in via Tenaglie, 15, verrà posta la pietra d'inciampo in onore a Giovanni. Un grande riconoscimento, dopo la medaglia d'onore ricevuta dalla Repubblica Italiana qualche anno fa, che permette alla Brianza e all'Italia di non dimenticare la storia di Giovanni Oggionni.